venerdì 8 agosto 2008

UNDP & Partecipazione

Torniamo a parlare di Democrazia Diretta e Partecipata e Decentramento con dei ragionamentimtratti dal Programma delle Nazione Unite per lo Sviluppo (UNDP), massima autorità internazionale d’analisi dei meccanismi dello sviluppo umano, alla cui ricerca facciamo perciò riferimento per le nostre convinzioni politiche.

L’UNDP sottolinea innanzitutto come il decentramento favorisca sempre la partecipazione politica popolare e quest’ultima produce sempre effetti positivi sullo sviluppo in quanto esista un rapporto strettissimo fra democrazia e sviluppo umano. Più un paese è democratico, sostiene l’UNDP, maggiore è la probabilità che quel paese si sviluppi e, d’altro canto, l’effettività della democrazia dipende direttamente dal decentramento del potere.
La ricetta dell’UNDP per lo sviluppo è dunque semplice: decentrare per partecipare; partecipare per aumentare il benessere. Non a caso la nota istituzione internazionale ha dedicato numerosissimi studi (a partire dal suo 4° rapporto annuale, del 1993) proprio al tema del decentramento e della partecipazione popolare all’attività politica, sottolineando continuamente i benefici effetti del decentramento e della partecipazione popolare sullo sviluppo umano.
Naturalmente, sottolinea l’UNDP, “se il decentramento non prende le forme della riduzione dei livelli di concentrazione e della delega, il governo manterrà il controllo effettivo ed è improbabile che ne risulti un aumento della partecipazione politica. (…) Il potere può anche essere affidato ad istituzioni locali non democratiche che non incoraggiano la partecipazione popolare”, inoltre spesso “il potere centrale conserva un forte controllo politico” per esempio nel caso in cui il potere affidato agli enti locali viene gestito localmente da persone designate dall’alto.
In ogni caso l’UNDP sottolinea come tutti gli aspetti positivi del decentramento (che indicheremo sommariamente qui sotto) “si esprimono solo in presenza di un decentramento genuino e di strutture realmente democratiche”.
Inoltre è bene ricordare che, anche alla luce delle ricerche condotte dall’UNDP, “ un decentramento efficace è impossibile senza una vera riforma delle strutture di potere esistenti. Se il potere rimane concentrato nelle mani di un’elite (…) si corre il rischio che il decentramento dia maggiore potere all’elite piuttosto che alla gente”.
Fondamentale infine è il ruolo essenziale che nelle politiche locali possono svolgere le organizzazioni non governative.
Oltre alla partecipazione politica il decentramento tende inoltre a favorire la partecipazione economica ed “agevola l’attività imprenditoriale locale nonchè l’aumento dei livelli occupazionali in vari modi. (…) La costruzione e manutenzione di infrastrutture locali tende a dare lavoro direttamente alle imprese ed alla manodopera locali. (…) Le autorità locali sono generalmente in grado di offrire un miglior sostegno alle imprese locali fornendo un’assistenza alla gestione e delle informazioni di mercato più adeguate alle esigenze locali. Inoltre esse si trovano nella posizione migliore per identificare le necessità delle aziende.”.
La partecipazione economica “può essere incoraggiata anche mediante strategie d’investimento decentrato che promuovano industrie di piccole dimensioni e sfruttino meglio le risorse, le materie prime e le capacità dei lavoratori del luogo”.
Secondo l’UNDP il decentramento del potere è non solo una delle strade migliori per favorire la partecipazione politica ed economica ma anche per migliorare l’efficienza dei pubblici poteri in considerazione del fatto che “i politici locali, molto più soggetti al controllo popolare di quanto non lo sia il governo centrale, sono costretti a rendere maggiormente conto del loro operato alle comunità ed alle persone di cui sono al servizio”.
“Dovunque si sia avuta una qualche forma di decentramento, esso ha generalmente aumentato l’efficienza”, come naturale portato di “controlli e supervisioni più serrati” e miglior ricorso alle potenzialità locali.
Inoltre “i pubblici progetti sono assai più incisivi ed efficienti se le comunità locali a cui sono destinati avranno voce in capitolo nella loro progettazione ed esecuzione”. In fase di progettazione i programmi risultano “meglio calibrati rispetto alle esigenze della comunità, inoltre minori risultano i ritardi dovuti ai contrasti fra gli operatori del progetto ed i beneficiari”.
Tutto ciò soprattutto quando il decentramento è effettivo e profondo, ossia quando “conferisce poteri decisionali con piena autonomia al governo locale” in modo che “l’amministrazione locale disponga effettivamente delle risorse finanziarie e dell’autorità per definire ed attuare programmi e progetti per lo sviluppo del proprio territorio”.
Queste considerazioni valgono, secondo l’UNDP, non solo per i paesi in via di sviluppo ma anche per quelli industrializzati e non solo nell’ambito strettamente economico ma anche negli ambiti più impensabili.
Il decentramento contribuisce a migliorare l’efficienza sia in termini di progettazione che in termini di tempi e costi di realizzazione. E questo non vale solo per i programmi di opere pubbliche ma anche per l’attività pubblica ordinaria. Tant’è che, per fare solo un esempio, che “il coinvolgimento locale delle comunità porta ad un’apprezzabile riduzione dell’assenteismo degli insegnanti man mano che questi devono sempre più rendere conto alla comunità locale di quanto fanno”.
Inoltre “il coinvolgimento locale delle persone (impossibile nelle strutture centralizzate) si traduce spesso in una struttura più appropriata di servizi, e ciò soprattutto nel settore sanitario, (…) i vantaggi sono distribuiti più equamente fra la popolazione e gli interventi sono più rispondenti alle effettive esigenze della comunità”, in quanto “le autorità locali, essendo più vicine alla popolazione e più sensibili alle sue esigenze, distribuiscono le risorse con maggiore cognizione di causa dirigendole verso settori umani prioritari come l’istruzione e l’assistenza sanitaria, e più in generale nei settori più rilevanti per lo sviluppo umano”.
Secondo l’UNDP “un vantaggio ulteriore e duraturo del decentramento e del coinvolgimento popolare nella fornitura di servizi locali è che gestione e mantenimento risulteranno più semplici” e gli standard dei servizi miglioreranno.
Per queste ragioni l’UNDP si spinge addirittura ad auspicare che “la distruzione dei servizi sociali avvenga quasi interamente a livello locale attraverso ospedali, scuole, servizi di assistenza locali”, rammaricandosi che ciò in pratica non avvenga “né nei paesi industrializzati né in quelli in via di sviluppo”.

L' Italia segue l' Argentina sulla stessa strada


L'Italia segue l'Argentina sulla stessa strada
Un interessante articolo, un pochino datato invero, scaricato da questo indirizzo web:
http://www.valori.it/index.php?option=com_content&task=view&id=136&Itemid=0 ,
La firma stavolta arriva dall' area economica di destra, buona lettura, Giorgio.

Desmond Lachman, il 16 marzo 2006, ha firmato un articolo sul Financial Times dal titolo “L'Italia sta seguendo la stessa strada dell'Argentina verso la rovina” (Italy follows Argentina down road to ruin). L'autore è membro con Richard Perle, Paul Wolfowitz e Michael Leeden dell'American Enterprise Institute, uno dei maggiori think-tank della destra economica Usa e anche uno dei massimi sostenitori della politica di George W. Bush per quanto riguarda prima l'Iraq e ora l'Iran. Lachman è stato vicedirettore di Policy and Review Departement del Fondo Monetario Internazionale, Quando un uomo al vertice del potere internazionale come Desmond Lachman scrive un articolo, non chiarisce un punto di vista come avviene in un normale dibattito democratico, ma dà un ordine per renderlo esecutivo, capace com'è di esercitare indebite pressioni atte a provocare, se necessario, guerre economiche o veri scontri militari come in Iraq. Perché questa analogia tra la situazione economica dell'Argentina degli anni Novanta e l'Italia di oggi? Questi due Paesi “stabilizzavano” le loro economie con svalutazioni periodiche, che davano maggiore competitività alle loro merci sul mercato internazionale e agivano sull'inflazione per diluire il debito pubblico. Ma negli anni Novanta l'Argentina agganciò la sua moneta al Dollaro. Questa scelta evidenziò che la valuta Usa era troppo forte rispetto all'economia del Paese sudamericano che entrò in una crisi devastante. L'Italia ha fatto la stessa scelta agganciando l'Euro, altra moneta forte, pur avendo un'economia debole, dovuta a scelte subalterne di politica economica effettuate dai vari governi che si sono succeduti dal dopoguerra ad oggi. Dopo l'aggancio con la valuta forte, i due Paesi si sono trovati di fronte ad un percorso obbligato: introdurre dure riforme del lavoro, “flessibilità” esasperata e precarietà generalizzata, prelievo fiscale diretto o indiretto per sanare il debito contratto drenando risorse dalle tasche dei piccoli risparmiatori verso le casse dei banchieri del FMI. Un disastro che in Argentina ha provocato, tra le altre cose, l'impossibilità per i risparmiatori di accedere ai propri depositi. Una situazione talmente paradossale che ha visto gli argentini morire di fame, pur avendo i supermercati pieni di generi alimentari. L'aggancio con l'Euro da parte del nostro Paese ha prodotto una situazione singolare: l'Italia deve pagare gli interessi del suo enorme debito pubblico alla Banca Centrale Europea, agli stessi tassi imposti dal FMI per i Paesi europei più forti, che compensano questo meccanismo usuraio con produzioni competitive in quanto ad alto contenuto tecnologico. L'Italia, che è sotto di 15 punti nella competitività alla Germania, non può più giocare la carta della svalutazione della Lira e della propria produzione essendo vincolata all'Euro, ricorre a salari da fame e al taglio della spesa sociale, grazie alla sua classe politica e imprenditoriale che si attiene scrupolosamente alle imposizioni del Fondo Monetario Internazionale. Helmut Reisen analista economico dell'OCSE, nel suo rapporto “China's and India's implications for the world economy” prevede un calo del 15% dei salari e degli stipendi in Europa e un leggero innalzamento di quelli dei Paesi asiatici, con un trasferimento di risorse verso i profitti. Questa politica del FMI ha obbligato la Cina nel 2005 ad un abbattimento dei prezzi delle sue merci esportate del 25%, per compensare gli aumenti dei prezzi di petrolio e degli impianti industriali, creando nel contempo in quel Paese ulteriori problemi sociali che hanno determinato una forte migrazione verso le città e hanno visto riemergere una forte opposizione sociale, soprattutto nelle zone agricole più povere. Il FMI vuole attaccare lo Stato sociale europeo, unica alternativa politica e sociale al modello liberista e ci propone come “cura” il modello asiatico. Desmond Lachman sostiene nel suo articolo che l'Italia ha bisogno di forti riforme, come quelle introdotte in Argentina da Carlos Menem. Secondo Lachman, quindi, il nostro Carlos Menem da Arcore non ha ancora riformato a sufficienza nei cinque anni del suo governo e mette le mani avanti anche rispetto al futuro governo Prodi; in più intima ai Paesi forti dell'economia europea, Germania, Francia, Olanda, Belgio, ecc. di smettere di accollarsi i costi del nostro debito pubblico. È singolare che il monito sul debito pubblico ci arrivi dagli Stati Uniti, che sono i detentori del record mondiale del debito e che si diano indicazioni alla Banca Centrale Europea sulle scelte da fare. Con l'intervento di Lachman si formalizza, da parte dei poteri forti, la creazione di un'Europa a due velocità, come già aveva preconizzato Joachim Fels, economista della Morgan Stanley, in un'intervista dell'8 agosto 2005 alla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Fels riteneva improbabile “che l'Italia esca dal sistema monetario europeo di sua volontà. É più probabile che i Paesi che vogliono la stabilità diranno: noi introduciamo una nuova moneta forte, che chiamiamo Neuro (New Euro). E così gli italiani e gli altri che diluiscono la qualità e stabilità dell'euro saranno lasciati fuori”. La creazione di un'Europa a due velocità ha lo scopo preciso di ridimensionare il peso politico del nostro continente, rispetto al blocco angloamericano. I paladini della concorrenza sono i primi a combatterla. Dopo la svendita degli anni Novanta delle industrie di Stato, l'attrattiva dell'Italia è comunque rappresentata dal suo risparmio: 140 miliardi di euro, che devono passare di mano e la lotta sul controllo delle banche ne è la parte visibile. Questa capacità di risparmio e una corretta politica fiscale potrebbero essere il volano del rilancio della ricerca, dell'industrializzazione su basi scientifiche avanzate, che non scarica solo sui più deboli i costi di questa modernizzazione. Ma questo richiede una grande autonomia, nei confronti di tutti. Siamo alla politica dell'assurdo: il nostro Paese, fedele esecutore delle direttive del FMI, viene criticato dal medesimo al solo scopo di ottenere la continuazione di quella nefasta politica anche con i futuri governi. Da questi fatti si evidenzia una continua ingerenza dei banchieri e delle loro strutture e una debolezza di fondo delle istituzioni e dei politici nei vari Paesi europei. In sostanza i politici sono incapaci di contrapporre una loro autonoma politica in alternativa a quella del Fondo Monetario Internazionale. E' come se sul nostro territorio ci fosse una pletora di uomini politici, di forze economiche e intellettuali che operino contro l'unità e i valori europei. Nessuno mette nel proprio programma politico scelte utili ad arginare questa disfunzione del sistema democratico, anzi ogni governo nazionale, tramite la propria Banca Centrale, si fa docile strumento di scelte che come consenguenza produrranno solo tensioni sociali sul nostro territorio, vedi il caso italiano e francese, a vantaggio di chi vuole continuare in modo imperituro a governare le sorti del mondo senza essere mai sottoposto ad un democratico e salutare voto. In sostanza i signori del FMI giocano con carte truccate: si comportano come i Re di Lidia del VI secolo a.c. ideatori della moneta, che veniva coniata in elettro, una lega oro-argento che doveva contenere un 70 per cento d'oro: ma ad un attento esame si è riscontrato che in quelle monete di oro ce n'era solo il 53 per cento.
http://www.valori.it/

L' Italia è una colonia


Girando nella rete cercando accostamenti tra la situazione economica italiana e quella della crisi argentina di qualche anno fa, sono incappato in questo testo; condivido non tutto quello che vi è scritto (intuibilmente è di parte!), ma sicuramente ci sono buoni spunti di riflessione. Buona lettura ,Giorgio.
http://italia.pravda.ru/italia/5412-8/
L'Italia e' una colonia?
15.04.2007 Source: Pravda.ru
I mass media propagandano l'immagine dell'Italia come di un paese libero e democratico, in cui la popolazione gode di potere politico ed economico. Ma e' davvero cosi'?
Il sospetto che l'élite egemone economico-finanziaria si sia appropriata del nostro paese sotto tutti i punti di vista e che lo stia guidando verso il baratro, è venuto persino al Financial Times, che in un articolo del 16 marzo 2006 scriveva che “L'Italia sta seguendo la stessa strada dell'Argentina verso la rovina”. L'autore dell'articolo, Richard Perle, è un esponente dell'estrema destra americana e un accanito sostenitore di George W. Bush, quindi è difficile credere che voglia mettere in cattiva luce l'élite dominante.
Il paragone fra l'Italia e l'Argentina nasce da considerazioni finanziarie, precisamente dalla scelta italiana di assumere l'euro come propria valuta, pur essendo il paese condannato ad avere un'economia debole, a causa delle scelte di politica economica effettuate dai governi, che tendono ad avvantaggiare il capitale straniero piuttosto che lo sviluppo del paese, come accade in una colonia. Anche l'Argentina, agganciando la propria valuta al dollaro, si trovò a fare i conti con una moneta forte, mentre la sua economia era in mani straniere. Ciò che accadde all'Argentina è noto.
Le aziende italiane sono state in gran parte rilevate dalle grandi corporation anglo-americane. Oggi l'Italia è il paese europeo meno competitivo, e che ha più aziende in mani straniere. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea stanno col fiato sul collo per controllare i pagamenti del debito, ignorando il livello di benessere o di povertà dei cittadini italiani. Infatti, pur di esigere i pagamenti, il Fmi non esita a chiedere tagli alla spesa pubblica (sanità, scuola, amministrazione, ecc.) e ulteriori privatizzazioni, peggiorando le condizioni del paese.
Lo scopo principale del Fmi (dobbiamo ricordare che esso è un istituto finanziario controllato dai banchieri anglo-americani) è quello di impoverire i cittadini italiani, in armonia con ciò che già, nel 1998, svelava Zbigniew Brzezinski, nel suo libro La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici. L'eccessivo benessere dei paesi dell'Europa occidentale, secondo Brzezinski, era un grave ostacolo, poiché tale livello di ricchezza era più elevato rispetto a quello della media dei cittadini americani, ed essendo l'Europa considerata un protettorato americano, ciò risultava inammissibile.
L'Europa ha una posizione fondamentale di fortezza geostrategica per l'America. L'Alleanza Atlantica autorizza l'America ad avere influenza politica e peso militare sul continente … se l'Europa crescesse, questo beneficerebbe direttamente l'influenza americana … L'Europa Occidentale è in larga misura un Protettorato americano e i suoi Stati ricordano i vassalli e i pagatori di tributi dei vecchi imperi... L'Europa deve risolvere il problema causato dal suo sistema di redistribuzione sociale che è troppo pesante e ostacola la sua capacità di iniziative.
L'Europa doveva essere indebitata e impoverita affinché il dominio statunitense potesse imporsi su tutta l'Eurasia. Occorreva con urgenza impoverire i ceti medi, e ciò è avvenuto in Italia anche a causa della Legge Biagi, che legalizza lo sfruttamento lavorativo. Il resto lo fecero il sistema bancario, le dittature imposte al Terzo mondo (che hanno costretto milioni di persone ad offrire manodopera semischiavile, abbassando il costo del lavoro e smantellando il sistema dei diritti, frutto di lotte politiche e sindacali), e le privatizzazioni, promosse dal Fmi. Le campagne mediatiche menzognere fanno credere che il Fmi e la Bce tengano alla "stabilità" del paese, o alla "competitività" delle aziende italiane, mentre è l'esatto opposto: vogliono tenere in scacco l'intera economia del paese, strozzandola con il debito e rendendola poco competitiva attraverso varie strategie.
I nostri politici, anziché cercare di contrastare il potere del Fmi, lo assecondano, e lo propagandano come giusto e autorevole, mostrando così che l'Italia è soggiogata anche politicamente al potere straniero, come una colonia. In molti modi (privatizzando, non tutelando i prodotti italiani, accettando di pagare i diritti di signoraggio, foraggiando le società private, ecc.) i nostri governi operano per la distruzione economica e finanziaria del nostro paese, e non per il nostro benessere e per i nostri valori.
Il livello di povertà nel nostro paese è aumentato dal 6,5% della popolazione degli anni Novanta, all'11,7% del 2001, fino al 12% del 2005. Le riforme neoliberiste imposte all'Italia dal Fmi hanno sottratto ricchezza alla classe media e inferiore, per arricchire l'élite già ricca, come dimostra l'analisi fatta dalla Banca d'Italia nel periodo 1989/1998:
Il 10% delle famiglie più povere aveva il 2.7% del reddito totale nel 1989, mentre nel 1998 questa quota è scesa al 2%. Il 10% delle famiglie più ricche ha invece incrementato la propria quota dal 25.2% al 27.5%. L'incremento dell'indice di Gini, in 9 anni, è stato pari all'11%... piccoli incrementi (decrementi) dell'indice di Gini provocano enormi aumenti (diminuzioni) del divario tra il più povero e il più ricco dell'insieme. Oggi circa il 20% delle famiglie più ricche possiede oltre la metà del reddito del paese, mentre il 20% delle famiglie italiane povere possiede soltanto circa il 6%. Ciò spiega perché le famiglie ricche italiane, come i Benetton, i Pirelli e i Falck, siano così accondiscendenti alla colonizzazione dell'Italia: ciò garantisce loro maggiore ricchezza e privilegi.
Un paese risulta soggetto al dominio coloniale quando non è padrone del proprio territorio e non sceglie liberamente la propria organizzazione politica ed economica. I diritti degli indigeni coloniali sono subordinati agli interessi della potenza dominante, che si erge al di sopra delle leggi. Le autorità dei paesi coloniali esigono ingenti pagamenti, come accade con le banche titolari del nostro debito, che impongono alle nostre autorità di elaborare una finanziaria annuale per pagare il debito.
Il debito è in realtà una forma di tassazione imposta dalle banche, architettata in modo tale che i cittadini credano di aver ricevuto qualcosa da dover pagare, mentre invece si tratta di una tassazione di tipo coloniale, cioè creata per impoverire i cittadini e arricchire il sistema di potere. Il debito imposto all'Italia è talmente alto che nel 2002 equivaleva ad un terzo del debito pubblico complessivo di tutti i paesi dell'Unione Europea (che era di 4707,7 miliardi di euro). Nonostante le manovre finanziarie che hanno dissanguato il paese, nel gennaio 2007 il debito era ancora di 1.605,4 miliardi. Non sarà mai estinto, affinché l'Italia possa rimanere in eterno assoggettata all'élite bancaria.
Le finanziarie hanno anche l'obiettivo di stanziare denaro per la partecipazione alle guerre del paese dominante, e nell'ultima finanziaria il governo ha aumentato tali spese a 20,354 miliardi di euro, che è una somma altissima per un paese che non ha nemici e ufficialmente non è in guerra. Si comprende tale spesa soltanto se si pensa che ogni paese sottomesso ad un potere coloniale è obbligato a partecipare alle spese militari del paese imperiale. Gli italiani pagano il 41% del costo di stazionamento delle basi americane, si tratta complessivamente di 366 milioni di dollari all'anno.
Proprio come una colonia, subiamo un'occupazione militare e siamo anche costretti a pagarla. (....)
(...)La privatizzazione delle aziende pubbliche (ferrovie, poste, autostrade ecc.) ha prodotto perdite economiche gravissime, il peggioramento della qualità dei servizi e l'aumento del costo per l'utente. Svendere i beni pubblici non significa soltanto impoverire il paese (che perde i profitti delle aziende vendute ed è anche costretto a finanziarle), ma anche indebolire il governo. Ad esempio, il Ministro per lo Sviluppo economico Pier Luigi Bersani ha propagandato come importante la sua riforma che eliminava il costo di ricarica delle schede telefoniche, senza dire però che il governo non aveva alcun potere di impedire che la cifra della ricarica venisse reinserita mediante l'aumento delle tariffe. Nel giro di pochi giorni, alcune società telefoniche cambiarono i piani tariffari, in modo tale da garantirsi gli stessi introiti che avevano in precedenza.
Questo è un chiaro esempio di come le privatizzazioni sottraggono denaro e potere all'intera comunità, costringendo i cittadini a sottostare allo strapotere delle società private. Se i nostri ministri dovessero davvero difendere gli interessi dei cittadini, contro le corporation e le banche, sarebbero immediatamente richiamati all'"ordine" dalle autorità dell'Unione Europea e da quelle statunitensi.
La privatizzazione della Telecom, avvenuta nell'ottobre del 1997, permise ad un gruppo di imprenditori e banche di impadronirsi dell'azienda, e al Ministero del Tesoro rimase soltanto il 3,5%. Il piano per il controllo di Telecom era stato progettato dalla Merril Lynch, dal Gruppo Bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e dalla Chase Manhattan Bank. Dopo dieci anni dalla privatizzazione, il bilancio era disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone erano state licenziate, i titoli azionari avevano fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti erano aumentati e la società era in perdita.
I danni per la privatizzazione di Telecom non sono stati soltanto di natura finanziaria, ma anche relativi alla qualità e alla sicurezza del servizio. La privacy dei cittadini non è in alcun modo tutelata, e gli scandali degli ultimi anni lo hanno provato.
Oggi l'azienda è ridotta male, e i titoli azionistici oscillano. Tre grandi banche, Morgan Stanley, Goldman Sachs e Ubs, possono far salire o scendere qualsiasi titolo, avendo nelle mani il 70% del credito speculativo mondiale, e potendo diffondere notizie che condizionano il comportamento degli investitori. Manovrando il valore delle azioni, si condiziona l'andamento dell'azienda, e ciò consente ai grandi colossi bancari di preparare il terreno per appropriarsene, come sta accadendo anche con Alitalia.
Pirelli ha aperto trattative in esclusiva col colosso American Telephone and Telegraph Company (At&T), che appartiene ad un gruppo di grandi banchieri, che quest'anno ha vinto negli Usa un appalto pubblico ricchissimo, per gestire il settore delle telecomunicazioni, e fornire servizi a 135 delle 184 agenzie federali, insieme a Qwest e Verizon. Le trattative con At&t, e America Movil dureranno fino al 30 aprile, poi Generali e Mediobanca avranno 15 giorni di tempo per esercitare il loro diritto di prelazione.
Non sappiamo ancora se sarà la At &t ad impadronirsi di una delle aziende più importanti del nostro paese, ma sappiamo già cosa accadrà dopo la svendita: si avranno licenziamenti, aumenterà il costo per l'utente, la qualità del servizio sarà sempre più scadente ed emergeranno di tanto in tanto illegalità diffuse, che riveleranno la possibilità di controllo su ogni cittadino.
Chi dubita che l'Italia di oggi abbia caratteristiche di natura coloniale provi a scrivere una lettera alle autorità italiane, per chiedere spiegazioni sui debiti bancari e sul signoraggio, sulle privatizzazioni, sulla sovranità territoriale dell'Italia oppure sulle testate nucleari. Non otterrà alcuna risposta chiara, esauriente e onesta (semmai dovesse ricevere qualche tipo di risposta), e questa sarà una prova che le nostre autorità sono a servizio delle banche e delle corporation internazionali, e subordinano ad esse i diritti dei cittadini italiani, come accade nelle colonie.
di Antonella Randazzo per www.disinformazione.it

mercoledì 6 agosto 2008

Formule di Democrazia Partecipata: e-TM

Le pratiche deliberative statunitensi, grazie alle nuove tecnologie, si sono notevolmente evolute, permettendo a molte persone di riunirsi, anche in luoghi diversi, per discutere ed esprimersi a proposito di politiche pubbliche. Di recente sperimentazione una nuova versione del TM, che offre alcuni elementi di innovazione dal punto di vista della tecnologia
adottata: l’Electronic Town Meeting [e-TM].
Il metodo “electronic town meeting” [e-TM] consente di mixare i vantaggi della discussione per piccoli gruppi, con quelli di un sondaggio rivolto ad un ampio pubblico.
In questo modo l' alternanza fra momenti di discussione e di momenti di voto individuale permette che l’esito delle discussioni produca delle domande da sottoporre immediatamente all’assemblea. Nell’e-TM si svolgono in successione tre differenti fasi di lavoro, volte a facilitare i partecipanti nel trattamento dei temi oggetto della discussione:
1. una prima fase di informazione e approfondimento grazie agli apporti di
documenti ed esperti;
2. una seconda fase di discussione in piccoli gruppi;
3. una terza fase in cui i temi sintetizzati e restituiti in forma di domande sono proposti ai partecipanti che si possono dunque esprimere in modo diretto votando individualmente mediante delle tastierine (polling keypads).
Questo modello di democrazia deliberativa è ormai riconosciuto a livello internazionale e tale metodologia si va diffondendo ormai in svariati contesti. Negli USA il metodo è stato usato in situazioni diverse e in Europa è stato sperimentato, ma a scala ridotta e non aperta al pubblico. La prima volta in Italia è stata a Torino, nel Settembre del 2005, prima delle Olimpiadi invernali: duemila tra ragazzi italiani e stranieri si sono incontrati per confrontarsi sui grandi temi mondiali.
Attraverso l’elettronic town meeting la tecnologia viene messa al servizio della partecipazione, in pratica, una cibernetica rivisitazione di quegli incontri pubblici ed assemblee di cittadini, ponte tra la democrazia rappresentativa e la democrazia diretta. Un grande esempio di e-TM il televoto con cui 4.000 newyorchesi si sono pronunciati sul miglior progetto di ricostruzione per l’area delle Twin Towers.
continua

Formule di Democrazia Partecipata: Town Meeting

Continuianamo la disquisizione sui metodi della Democrazia Partecipata, parlando oggi dei Town Meeting, una particolare forma di Governo Locale, praticata in scioltezza e regolarità, nel nord est degli USA; nella regione chiamata New England (Vermont, Connecticut, Maine, Rhode Island e Massachussets), la prima zona degli USA colonizzata dagli inglesi. I Town Meeting hanno una storia che ha più di 300 anni, attualmente trovano attuazione nelle città più piccole di 6000 abitanti, questo non preclude però alle città più grandi, in ogni momento, di passare a una forma rappresentativa di Town Meeting. Queste assemblee cittadine si tengono, in genere, una volta all'anno, tradizionalmente il primo martedì di marzo, tendenzialmente, iniziano al mattino e terminano nel primo pomeriggio . Ogni città regolarizza queste Assemblee Partecipative a propria discrezione, di conseguenza, nei procedimenti dei Town Meeting, si sono evolute varie forme diverse. La forma di Town Meeting più diffusa, quella aperta alla partecipazione e al voto dei cittadini, è l'Open Town Meeting, che sembra sia attivo in almeno 1000 cittadine; in questa formula partecipativa, possono partecipare tutti i cittadini aventi diritto di voto, le decisioni prese hanno valore vincolante per gli amministratori. Vengono discussi tutti i temi che riguardano l'amministrazione della città, partendo dall'acquisto di suppelletili, all'intero bilancio cittadino; decidendo quanto assegnare all'istruzione, alle strade, alla sanità. Un Town Meeting è preceduto da un avviso, esposto, nei luoghi pubblici, almeno 1 mese prima e che indica il luogo e l'orario dell' incontro con elencati tutti i temi che verranno dibattuti. L'affluenza varia molto, a seconda della grandezza della città, la media è del 20,5 % ( la partecipazione alle votazioni locali, nel resto degli USA, quando vengono svolte da sole, non accompagnate alle votazioni presidenziali o statali, a volte arrivano a percentuali anche sotto al 10% ), ma in quelle più piccole si arriva a partecipazioni dell'80%. Si sceglie all'inizio dell' incontro il moderatore dell' assemblea , ma generalmente, anche se non è regola, è quello dell' anno precedente. Durante il Town Meeting vengono anche eletti i selectmen, ossia gli amministratori che dovranno attuare le scelte prese nella giornata. L' assemblea si svolge in maniera ordinata, seguendo regole prestabilite e codici di condotta decisi assieme, si susseguono interventi dei cittadini che durano mediamente un minuto, anche se non c'è nessun limite temporale previsto; la durata viene regolata semplicemente dall'abitudine e dalla consuetudine ad essere concisi. Il moderatore legge i punti all' ordine del giorno e le, conseguenti, proposte suggerite dagli amministratori in carica. Poi chiede il parere dei presenti, se nessuno alza la mano, il punto è considerato approvato. Chi interviene, di solito, lo fa per chiedere delucidazioni o per proporre un emendamento; in questo caso chi fa l'emendamento deve essere sostenuto dall'appoggio di altri cittadini (il numero varia da città a città). Se l'emendamento viene sostenuto, il moderatore fa iniziare una discussione a cui tutti possono partecipare. Il voto avviene, spesso, tramite voce, il moderatore chiede a chi è d' accordo di dire sì, a che non è d' accordo di dire no. Ad esito chiaro e senza dubbi, si procede con il successivo punto, altrimenti si vota per alzata per mano, senza una vera conta. Se la situazione ancora non è chiara, si passa al ballottaggio, con voto segreto scritto su un foglietto, e consegnato in una scatola sul tavolo del moderatore, il quale, subito dopo effettua il conteggio. I town meeting hanno una storia notevole, questo ha consentito lo sviluppo di procedure che li hanno resi veloci e produttivi.
continua

martedì 5 agosto 2008

Formule di Democrazia Partecipata: I metodi

La formula partecipiva più nota, la quale ha dato spunto per nuove esperienze, sicuramente è la trasformazione politica sperimentata a Porto Alegre (Orçamento Partecipativo, in italiano “bilancio partecipativo”), la quale porta in sé germi potenzialmente rivoluzionari: la rinuncia della classe politica a vaste fette dei privilegi insiti nel suo potere decisionale, l'attenzione ai più deboli e alle minoranze economiche, etniche, sessuali e culturali, lo stimolo a far sviluppare ai cittadini una forte coscienza critica verso l'operato dei propri eletti.
Vediamo però un poco il contesto europeo.
Sul piano europeo il più grande esperimento di democrazia partecipata è sicuramente la CNDP francese (Commision Cationale du Débat Public). La CNDP è un organismo indipendente a base nazionale che “anima” i dibattiti pubblici su temi riguardanti soprattutto grandi questioni d’amministrazione o di opere pubbliche. La CNDP è costituita da una serie di CPDP (Commision Particulières du Débat Public) che vengono create appositamente per ogni dossier aperto. La CNDP deve decidere entro due mesi dal termine delle varie istanze partecipative che possono differire tra loro a seconda dei casi.
La CNDP ha a propria disposizione varie opzioni: Può organizzare di propria iniziativa un dibattito pubblico affidando l’organizzazione a una CPDP creata all' uopo, affidare l’organizzazione del dibattito pubblico al diretto interessato oppure indirizzare il diretto interessato sule modalità di discussione all’interno del dibattito pubblico.
Nei primi due casi chi ha gestito il dibattito pubblico ha due mesi di tempo per stabilire le
questioni del dibattito e le modalità organizzative. Il dibattito si sviluppa in quattro mesi,
che possono essere portati a sei dalla CNDP in casi eccezionali, alla fine del dibattito gli
organizzatori redigono un report che viene usato come linea guida per una decisione
finale. In Europa troviamo anche significative le esperienze delle cosidette “giurie di cittadini”, su queste però tratteremo più avanti.
Diamo anche uno sguardo al contesto italiano
Il primo comune italiano a dotarsi di uno statuto che vincola la giunta all’approvazione di
un bilancio partecipativo è stato il municipio Pieve Emmanuele, situato in provincia di
Milano, con 17.000 abitanti. La struttura che è stata data alla redazione del bilancio si
articola in tre fasi, la stessa struttura che a grandi linee è stata adottata in molti altri
bilanci partecipati, Novellara, Modena, Piacenza, Pescara, San Benedetto del Tronto, Udine
ecc. Troviamo una prima fase di ascolto della cittadinanza, attraverso raccolta delle proposte dei cittadini o l’emersione dei bisogni, questo a seconda delle varie realtà viene effetuato con modalità differenti: si passa dalle assemblee propositive alla compilazione di apposite schede. Una seconda fase consiste nel vaglio delle proposte, attraverso tavoli di attuabilità con la cittadinanza o direttamente dagli uffici comunali interessati La terza fase genera il voto diretto dei cittadini sulle singole proposte, le proposte che ottengono più voti vengono attuate e inserite nel bilancio cittadino. Purtroppo ad oggi, anche per limiti di legge, non tutti i fondi presenti nel bilancio vengono discussi attraverso forme partecipative, la maggior parte di questi soldi viene destinata alla realizzazione di spazi pubblici come parchi, giardini e campi sportivi.
Non plus ultra, a mio giudizio, è invece l’esperienza del comune di Grottammare (AP) dove la partecipazione dei cittadini alle scelte della pubblica amministrazione è in atto da quasi
vent’anni, dove parlare di partecipazione in un ottica di puro bilancio economico è quanto
meno riduttivo. Grottammare sviluppa la partecipazione grazie a due organi appositamente creati le assemblee e i comitati di quartiere. Le prime vengono riunite periodicamente prima della redazione del Bilancio e hanno lo scopo di arrivare ad una approvazione condivisa di
questo documento contabile cosi importante per la comunità. Le assemblee hanno il
vantaggio di legare al processo partecipativo la dimensione di collettività e di dibattito
pubblico, questo è fondamentale in quanto solo in tali occasioni l’interesse privato viene
scavalcato dalla dimensione comunitaria e un problema individuale diventa battaglia
comune. I comitati di quartiere invece rappresentano la dimensione permanente della
partecipazione dei cittadini, essi hanno il compito di seguire lo stato di attuazione delle
scelte collettive ed eventualmente presentare nuove richieste. I comitati hanno anche il
compito di preparare il dibattito assembleare di cui concordano anche le date assieme alla
pubblica amministrazione e non ultimo svolgono anche un importantissimo ruolo di
informazione per la collettività. Di quanto nato in Toscana, la prima legge regionale sulla partecipazione, abbiamo già parlato, ma una cosa va aggiunta a quanto già detto: la legge sulla partecipazione toscana si è costruita attraverso forme di partecipazione (a marina di Carrara, esempio, si è tenuto un town meeting proprio su questo argomento) a cui i cittadini hanno risposto attivamente, redando, ad esempio, il documento preliminare della legge che, dopo un primo passaggio in Consiglio Regionale, è stato, ulteriormente, discusso dagli stessi partecipanti al town meeting.
(continua)

domenica 3 agosto 2008

Formule di Democrazia Partecipata: Concetti di base

Prima di giungere ad illustrare alcune tra le più diffuse formule partecipative, riorganizziamo un discorso di illustrazione, magari già intrappreso in queste pagine, ma sempre utile a chiarire alcuni concetti di base.

Il funzionamento delle democrazie moderne.
Nel nostro sistema i cittadini, aventi diritto al voto, delegano, a scadenze regolari, alcuni tra di essi, che avranno il compito di rappresentarli al governo del paese. In questo modo essi rinunciano alla propria autonomia politica, in cambio della libertà nella sfera privata. La democrazia di stampo rappresentativo ha visto una notevole diffusione nel XX secolo; infatti se nel 1926 erano ventinove i paesi che potevano vantare credenziali democratiche, nonostante scesero drammaticamente a dodici nel 1942 , dopo la sconfitta di Hitler e il crollo del blocco comunista, una settantina dei centoventisette paesi aderenti all’ONU, possono oggi essere considerati, in linea di massima, democrazie rappresentative.
Nonostante lo sviluppo indubbiamente positivo che si ebbe grazie a questa diffusione va comunque osservato che lo spazio concesso in teoria e in pratica al cittadino è minimo. Il governo e le decisioni sono esercizio esclusivo del governo, il compito del cittadino è semplicemente quello di recarsi alle urne periodicamente per eleggerli. Viene dunque a mancare in molti casi la natura prima di questa forma di governo, la sovranità popolare, non tanto per volontà degli eletti quanto per l’impossibilità di attuazione dovuta alla disastrosa scarsità di organi e strumenti predisposti all’ascolto dei cittadini. Nella società moderna e nelle sue istituzioni governative manca il collante necessario a trasmettere il sentire diffuso di comunità su cui si basa l’idea stessa di nazione e d’appartenenza ad un' unica collettività: un inevitabile effetto della dilagante mancanza di collegamenti e conseguente sfiducia reciproca che definisce il dialogo istituzione-cittadino.
Il percorso fin qui descritto porta alla ricerca di una nuova idea democrazia, quasi un ibrido delle due forme fin ora esistenti – democrazia rappresentativa e diretta – quella nuova istituzione che prende il nome di democrazia partecipata.

Vie alternative attraverso la partecipazione
Abbiamo già scritto che se in italiano, deliberare significa decidere o approvare, l’inglese “to deliberate” significa discutere e decide di comune accordo; l’aggettivo deliberativa, riferito alla democrazia, nasce proprio da questo significato. Le forme di democrazia
partecipativa o deliberativa hanno come fine ultimo il mediare tra cittadini e istituzioni, mettendo in luce agli occhi delle ultime i bisogni e le richieste dei primi. Non si vogliono spogliare le istituzioni delle loro funzioni, ma fornire uno strumento supplementare per un miglior governo. Nascono cosi in tutto il mondo leggi che mirano a regolare gli strumenti della partecipazione. Strumenti, metodi e regole che aiutano il processo di partecipazione nella vita pubblica e hanno come obbiettivo quello di fornire ai cittadini organi riconosciuti e accreditati attraverso i quali far sentire la loro voce e partecipare alle scelte del governo,
soprattutto, ma non necessariamente (dico io), locale.

Continua

Formule di Democrazia Partecipata

Riordiniamo di nuovo le idee, e partiamo per un nuovo percorso di illustazione della democrazia partecipata, e delle sue formule. Ormai abbiamo acquisito che si tratta di nuova forma di vivere i processi democratici, che si sta diffondendo a macchia d’olio in tutto il globo ed assume in ogni realtà aspetti e percorsi sempre originai e diversi.
La democrazia partecipata si pone come obbiettivo primario quello di coinvolgere direttamente i cittadini in alcune delle scelte di governo, ed in particolare quelle che lo riguardano direttamente più da vicino.
La democrazia partecipata o deliberativa cerca di ritrovare una via di mezzo tra l’ormai debole forma di democrazia rappresentativa e l’inattuabile forma della democrazia diretta senza cadere in soluzioni illusorie e populistiche.
Io vedo nella Democrazia Partecipata una possibile spinta di rinnovamento per ricostruire e riconquistare una coesione sociale persa e un legame istituzione-cittadino di cui non resta che la memoria sfuocata.

Una breve analisi del concetto proposta da chi ha più cognizione in causa di me...paticolare attenzione alle ultime righe
tratto da “La democrazia che non c'è” di Paul Ginsborg, Einaudi

“L'aggettivo inglese deliberative (deliberativo), riferito alla democrazia, racchiude in sé il doppio significato di discutere e decidere. Nell' arena deliberativa i cittadini sono chiamati non solo a dibattere tra loro o con i politici, ma a giocare un ruolo significativo nel processo decisionale. È centrale a questo proposito l'idea di arrivare alle decisioni coinvolgendo tutte le parti in causa o i loro rappresentanti. Il metodo utilizzato è il dibattito inserito in un contesto strutturato di collaborazione, basato su un'informazione adeguata e una pluralità d’opinioni, con precisi limiti di tempo entro i quali pervenire a decisioni. Idealmente le arene deliberative contribuiscono a far sentire i cittadini informati e partecipi, non isolati, ignoranti e impotenti. Aiutano politici e amministratori a governare meglio e a colmare il divario che troppo spesso li separa dalla società civile. La democrazia deliberativa vanta un certo numero di prerogative. Luigi Bobbio ne evidenzia tre, particolarmente importanti. Innanzi tutto essa è potenzialmente, pur se non necessariamente, in grado di generare decisioni migliori, poiché nel corso del dibattito si procede ad una ridefinizione dei problemi e si propongono nuove mediazioni e soluzioni.
In secondo luogo le decisioni acquistano maggiore legittimità se derivate dal processo di deliberazione, in quanto non prodotte separatamente da un piccolo gruppo ma da una pluralità di persone, alcune delle quali possono anche non condividere la decisione finale, ma tutte riconoscono la legittimità della procedura attuata. Terzo in ordine di citazione, ma non d’importanza per i nostri obiettivi, la deliberazione promuove le virtù civiche insegnando alle persone ad ascoltare, a essere più tolleranti e spesso a costruire rapporti di fiducia reciproca.”
Giorgio Bargna

Parlare di Democrazia Partecipata: l'avvallo


Vediamo quali articoli, costituzionali e internazionali, avvallano la nostra voglia di partecipazione. Una voglia che pretende che partecipazione e democrazia partecipativa vengano riconosciute dello status di valore fondamentale e vengano introdotte concretamente nella pratica normativa e amministrativa. Del resto l’orientamento esplicitato nell’art. I-46 del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, dichiara che, accanto e complementarmente alle istituzioni di democrazia rappresentativa ed agli istituti di democrazia diretta, non solo la partecipazione in genere ma anche le forme più incisive della democrazia partecipativa abbiano un preciso collegamento con le realtà di base degli ordinamenti democratici. Riferimenti li troviamo anche nella nostra Costituzione Repubblicana, sono presenti, ad esempio, nell’art. 3.2, quando individua nel promovimento della partecipazione in campo politico, economico e sociale un fine generale dell’ordinamento della Repubblica e di tutta la sua azione, precisando che la “partecipazione” vi è prevista come un fine generale dell’azione della Repubblica, in stretta unione allo “sviluppo della persona umana”. Questo ragionamento non sta in piedi da solo, infatti viene sostenuto con l’art. 2, che esprime la centralità dei diritti della persona e il
loro complemento nelle formazioni sociali, e con l’art. 1 e l’appartenenza al popolo
della sovranità e del suo esercizio; inoltre, con tutti i diritti e i doveri
fondamentali degli individui e delle formazioni sociali codificati nella prima parte
della Costituzione. Pertanto la partecipazione diventa, sulla base dell’art. 3 e di queste altre norme, principio fondamentale delle regole e delle istituzioni repubblicane.Conseguentemente potremmo vedere Partecipazione Popolare e Democrazia Diretta e Partecipata come i contenuti di un vero e proprio “diritto soggettivo”, nella forma di un diritto individuale fondamentale: il che potrebbe ricondursi alla concezione tradizionale che concepisce l’ attività politica del cittadino come la vera e propria espressione di un diritto fondamentale (diritto politico).
Giorgio.

Parlare di Democrazia Partecipata


Oggi, sulla spinta delle esperienze latinoamericane, ma ormai anche europee, nonchè italiane, nella nostra società (spingendo sulle istituzioni) vanno acquisendo sempre più forma tratti di Democrazia Partecipata. Questo percorso obbliga ormai le istituzioni ad adeguarsi, generando una regolamentazione formale che pone con forza l’esigenza di una fondazione giuridica della partecipazione e della strumentazione capace di darle corpo.
Scartabbellando nei testi del diritto, malgrado sia già non poco che si discute il tema, non si risontra un vero riconoscimento giurido alla Democrazia Partecipativa, io dico: “e chissa mai perchè?”. Magari qualcuno ritiene che la Partecipazione Popolare non detenga il diritto di essere giustificata nel sistema giuridico. Io ovviamente non la penso così; chiaro però che il diritto non può tutto e, particolarmente in questo campo, non può da solo generare pratiche adeguate, se non si mettono, si producono solidi impulsi sociali e politici e, anzi, tutta una “cultura” nuova. Vedremo quindi, nel futuro prossimo di elaborare ragionamenti che potrebbero essere utili anche a chi voglia procedere in maniera chiara e definita nelle tappe di elaborazione di normative (di differenti livelli, dal comunale al regionale fino eventualmente allo statale) sulla partecipazione e la democrazia partecipativa. Occorre senza dubbio chiarezza sul tema, in quanto si trova difficoltà nell' avvicinarsi a questo tema .
Allora vediamo cosa occorre fare. Innanzitutto occorre un’opera di pulizia concettuale, poi bisogna diffondere al massimo il pensiero partecipativo, visto che, attualmente, a livello comunale e provinciale, sempre più enti locali sembrano voler evolvere questo principio; anche se ancora in minoranza,mostrando di voler investire su un’idea sempre più accreditabile nazionalmente. Poi bisogna, razionalmente, chiedersi cosa vogliamo in realtà, i modelli adottati sinora sono assai vari, quindi non abbiamo a disposizione un modello standard di riferimento, ma solo alcuni principi orientativi,occore quindi un mix ossimoro, intelligente, di immaginazione e di realismo.

Aggiungo un pensiero di Umberto Allegretti:
La base teorica primaria che si può rintracciare a fondamento della
partecipazione e della democrazia partecipativa affonda le radici nel generale
rapporto tra società e istituzioni, che conforma le strutture genetiche degli
ordinamenti giuridici democratici. Basterà appoggiarsi sulle nozioni fondamentali
proposte dalla scienza italiana normale, che distingue tra stato-apparato e stato-
comunità, per delineare un diverso rapporto tra i due livelli in cui la società sia dominante. E converrà riferirsi altresì alla dottrina, che sta a base degli ordinamenti contemporanei, dell’appartenenza della sovranità al popolo. Entrambi questi ordini di idee portano infatti a ritenere che le forme della democrazia – considerate nel loro sviluppo storico concreto – tendono naturalmente ad arricchirsi, nel senso di ammettere come loro elemento, i più elevati gradi di partecipazione.

Dobbiamo porre attenzione nella proposta, che va elaborata, non da profani come me ma , da esperti nel settore, perché il tema partecipativo si intreccia con delle affinità quali il ruolo delle formazioni sociali, l’associazionismo, il volontariato, la concertazione, la
sussidiarietà sociale; come pure con la partecipazione al procedimento amministrativo e il diritto di accesso o ancora con altre situazioni quali l’autonomia locale, l’articolazione dei diversi livelli di governo, la sussidiarietà detta verticale, e gli istituti di democrazia diretta.

Proseguiremo il tema, Giorgio.