Spesso, per convinzione, identifico nella
Comunità l’alternativa allo Stato, inteso nel senso “moderno”. Non soppresso,
ma modificato, il nuovo (si fa per dire) modello di Stato lascerebbe libero
sfogo alla Comunità, un' entità oggi dai più dimenticata e cancellata di fatto dall’individualismo di forma
capitalista estrema.
Ritengo un grande pregio
della Comunità quanto i detrattori,
spesso, descrivono come limite: una fiducia di prossimità, affidata non più
all’ impersonalità di un apparato burocratico ma a consuetudini non scritte,
capaci nel corso del tempo di divenire tradizione. I detrattori sostengono spesso anche che il
concetto di Comunità porterebbe alla diffidenza verso tutto ciò che è
“progresso” in base a quanto descritto qui sopra, si dimenticano però i signori
che sino a poche generazioni fa il mondo era basato essenzialmente sul
territorio ristretto, eppure il progresso non si è mai fermato, semmai si
alimentava in modo assennato.
E’ indiscutibile che le
“Piccole Patrie” siano da sempre un punto di riferimento certo ovunque si creda
nell’ autodeterminazione, nel bisogno di libertà dalla burocrazia e di
rinnovamento della forma politico/amministrativa. Mia è una certezza: una
Regione, un Territorio non possono essere definiti e ritenuti tali se al loro
interno non esprimono nemmeno un movimento autonomista, per quanto piccolo esso
sia.
Solo la presenza di questo
presupposto può costruire qualcosa utilizzando, quale immagine illustrativa,
una pianta dall’anima con radici ben piantate nel terreno della storia e tronco
slanciato verso il domani.
Le Comunità possiamo
certamente, e senza paura di sbagliare, descriverle come pacifiche, vivaci,
produttive, “libertarie” e valorizzatrici del talento locale.
Le “Piccole Patrie”, proprio
perché piccole, portano in se molti vantaggi (tutti slegati dalle “grandi
ideologie moderne”), si può partire nella loro descrizione dal risparmio nella
gestione degli apparati burocratici, passando attraverso ad una più
circoscritta, se non quasi inesistente, conflittualità sociale per approdare ad
una quasi inesistente casta politico burocratica. Va aggiunto a tutto questo
l’espressione localista di una specializzazione
produttiva peculiare, completamente disgiunta dai mercati esterni, un argine
ben saldo a riparo delle esondazioni delle monocolture e delle monoproduzioni
tanto care alle multinazionali ed ai loro rappresentanti; il tutto senza voler
aggiungere qualcosa che dovrebbe essere ovvio
ed invece viene ignorato: la presenza di molteplici piccoli mercati è la
protezione assoluta del libero mercato, se inteso nel senso onesto e vero del
termine.
Il passaggio a Nazioni di
ampie dimensioni ha propagato a dismisura le differenze sociali e di ricchezza,
poche aree centrali(ste) si arricchiscono a discapito di zone rese periferiche, sfruttate, ignorate
nelle loro necessità e rese schiave; il principio della
globalizzazione ha moltiplicato all’ennesima potenza questo fenomeno anche su
Stati e Continenti creando di fatto il “centralismo economico”.
Il vantaggio certo di una
compravendita ed una produzione localizzata, l’ho scritto più volte, è il
contenimento nei propri confini di molta della ricchezza impiegata, il tutto associato
alla re-immissione del valore prodotto sul territorio, oltre che ad evitare il
coinvolgimento in una filiera molto ampia in cui la comunità locale viene
coinvolta solo nella fase della vendita del prodotto finito. Se applicato
onestamente e secondo canoni legittimi questo modus operandi alimenta un benessere collettivo in diversi
settori produttivi , favorendo un sistematico sviluppo del localismo
economico e tutelando la conservazione buona parte dei bisogni della Comunità e
gli strumenti materiali e culturali utili a soddisfarli.
Stati e Territori dalle
dimensioni sostenibili maturano una maggiore consapevolezza dei propri limiti a
livello economico ed anche, in parte, culturale e proprio perché consci di
questo automaticamente tendono, si a preservare i propri linguaggi e le proprie
tradizioni, ma anche, ad assimilare linguaggi esterni, il che consente di
relazionarsi con altri territori e di contrarre una tolleranza verso la
diversità che può svilupparsi solo grazie all’abitudine del confronto tra gli
uni e gli altri. Questa consapevolezza porta automaticamente ad una posizione
in cui si tende si a tutelare la propria identità, ma anche ricercare una
congrua integrazione; da questo status prende avvio quel percorso che pur
salvaguardando le piccole e proprie peculiarità aggrega. Un percorso, un
obbiettivo che si materializza con un termine specifico: Federalismo.
Sulla base di quanto
descritto, sulla sempre più elevata voglia di rifondamento da parte di
cittadini e territori e della vetustà dell’attuale assetto geopolitico è
ipotizzabile che negli anni a venire osserveremo una nuova cartina geografica
europea (e forse non solo) nella quale spiccheranno nuove forme istituzionali
di Nazione nate dalla progressiva voglia di aggregazione di piccoli territori
in forma federale.
Affermava qualche mese fa Marco Bassani: “La nuova Europa che si profila
all’orizzonte non deve suscitare timori di sorta: non
avremo conflitti, né scontri. Con ogni probabilità, tutto avverrà attraverso un
voto e una serie di negoziati: prendendo a modello quell’accordo tra Cameron e
Salmond che ha fissato, sempre per il 2014, il referendum sull’indipendenza
scozzese. Non è un caso che il primo ministro britannico, proprio mentre apre
negoziati con le comunità storiche, si appresta a chiedere agli inglesi se
vogliono continuare a far parte di quel cartello mummificato di Stati nazionali
ottocenteschi chiamato Unione europea”.
Condivido in toto questo pensiero che non ritengo essere una speranza ma
bensì una certezza.
Giorgio Bargna