venerdì 23 settembre 2016

La Nuova destra (III)



Continuiamo ad iilustrare il "Cartello Politico" de "La Nuova Destra" sempre attraverso quanto ho trovato, scritto da Alain de Benoist e Charles Champetier su "DIORAMA LETTERARIO" - Numero 229-230 (ottobre-novembre 1999). Buona lettura, Giorgio.








II. Fondamenti
"Conosci te stesso", diceva la massima delfica. La chiave di ogni rappresentazione del mondo, di ogni impegno politico, morale o filosofico risiede prima di tutto in un’antropologia. Le nostre azioni su compiono del resto attraverso certi ordini della prassi, che rappresentano altrettante essenze delle relazioni degli uomini fra di loro e con il mondo: il politico, l’economico, la tecnica e l’etica.

1. L’uomo: un momento del vivente
La modernità ha negato l’esistenza di una natura umana (teoria della tabula rasa) oppure l’ha rapportata a dei predicati astratti sconnessi dal mondo reale e dall’esistenza vissuta. A prezzo di questa rottura radicale è emerso l’ideale di un "uomo nuovo", malleabile all’infinito tramite la trasformazione progressiva o brutale del suo ambiente. Questa utopia è sfociata nelle esperienze totalitarie e nei sistemi concentrazionari del XX secolo. Nel mondo liberale, si è tradotta nella credenza superstiziosa nell’onnipotenza dell’ambiente, che ha generato non meno delusioni, in particolare nell’ambito educativo: in una società strutturata dall’uso della razionalità astratta, sono infatti le capacità cognitive a costituire il principale elemento di determinazione dello status sociale. L’uomo è innanzitutto un animale e come tale si colloca nell’ordine del vivente, la cui durata si misura in centinaia di milioni di anni. Se si compara la storia della vita organica a una giornata di 24 ore, l’apparizione della nostra specie interviene soltanto negli ultimi trenta secondi. Il processo di
ominizzazione si è svolto lungo parecchie decine di migliaia di generazioni. Nella misura in cui la vita si espande prima di tutto per trasmissione dell’informazione contenuta nel materiale genetico, l’uomo non nasce come una pagina bianca: ciascuno di noi è già portatore delle caratteristiche generali della nostra specie, alle quali si aggiungono predisposizioni ereditarie a certe attitudini particolari e a certi comportamenti. L’individuo non decide questa eredità, che ne limita l’autonomia e la plasticità ma gli permette anche di resistere ai condizionamenti politici e sociali. 

L’uomo però non è soltanto un animale: ciò che vi è in lui di specificamente umano – coscienza della propria coscienza, pensiero astratto, linguaggio sintattico, capacità simbolica, attitudine alla constatazione oggettiva e al giudizio di valore – non contraddice la sua natura, ma la prolunga, conferendole una dimensione supplementare ed unica. Negare le determinazioni biologiche dell’uomo o ridurlo ad esse riconducendone i tratti specifici alla zoologia sono dunque due atteggiamenti egualmente assurdi. La componente ereditaria della nostra umanità forma soltanto lo zoccolo della nostra vita sociale e storica: dato che i suoi istinti non sono programmati nel loro oggetto, l’uomo è sempre titolare di una parte di libertà (deve fare delle scelte sia morali che politiche) il cui unico vero limite naturale è la morte. L’uomo è prima di tutto un erede, ma può disporre della sua eredità. Noi ci costruiamo storicamente e culturalmente sulla base dei presupposti della nostra costituzione biologica, che sono il limite della nostra umanità. Ciò che sta al di là di questo limite può essere chiamato Dio, cosmos, nulla o Essere: la questione del "perché" non vi ha più alcun senso, giacché ciò che si trova al di là dei limiti umani è, per definizione, impensabile.
La Nuova Destra propone dunque una visione dell’uomo equilibrata, che tenga conto nel contempo dell’innato, delle capacità personali e dell’ambiente sociale. Essa rifiuta le ideologie che mettono abusivamente l’accento su uno solo di questi fattori di determinazione: biologico, economico o meccanico che sia.

2. L’uomo: un essere radicato, a rischio e aperto
L’uomo non è per natura né buono né cattivo, ma è capace di essere l’uno o l’altro. Da questo punto di vista è un essere aperto e "a rischio", sempre suscettibile di oltrepassarsi o di degradarsi. Le regole sociali e morali, così come le istituzioni e le tradizioni, permettono di scongiurare questa minaccia permanente, facendo sì che l’uomo si impegni a costruirsi nel riconoscimento delle norme che fondano la sua esistenza conferendole senso e punti di riferimento. L’umanità, definita come l’insieme indistinto degli individui che la compongono, designa o una categoria biologica (la specie), o una categoria filosofica scaturita dal pensiero occidentale. Dal punto di vista socio-storico, l’uomo in sé non esiste, perché l’appartenenza all’umanità è sempre mediata a una particolare appartenenza culturale. Questa constatazione non è un portato del relativismo. Tutti gli uomini hanno in comune la natura umana, senza la quale non potrebbero capirsi, ma la loro comune appartenenza alla specie si esprime sempre a partire da un contesto particolare. Essi condividono le stesse aspirazioni essenziali, che si cristallizzano però sempre in forme differenti, a seconda delle epoche e dei luoghi. L’umanità, in questo senso, è irriducibilmente plurale: la diversità fa parte della sua stessa essenza. La vita umana si colloca necessariamente all’interno di un contesto che precede il giudizio, foss’anche critico, che gli individui e i gruppi esprimono sul mondo, e modella tanto le aspirazioni quanto la finalità che sono loro proprie: nel mondo reale esistono soltanto persone concretamente situate. Le differenze biologiche non sono, in sé, significative se non in riferimento a dati culturali e sociali. 

Quanto poi alle differenze tra le culture, esse non sono né l’effetto di un’illusione né caratteristiche transitorie, contingenti o secondarie. Le culture hanno tutte un proprio "centro di gravità", come lo definiva Herder: culture diverse danno risposte diverse ai quesiti essenziali. Per questo ogni tentativo di unificarle finisce col distruggerle. L’uomo si colloca per natura nel registro della cultura: essere caratterizzato dalla singolarità, si situa sempre all’interfaccia tra l’universale (la sua specie) e il particolare (ciascuna cultura, ciascuna epoca). L’idea di una legge assoluta, universale ed eterna, chiamata a determinare in ultima istanza le nostre scelte morali, religiose o politiche appare dunque priva di fondamento. Tale idea è alla base di tutti i totalitarismi.
Le società umane sono nel contempo conflittuali e comunicative, senza che si possa estendere una di queste caratteristiche a beneficio dell’altra. La fede irenica nella possibilità di far scomparire gli antagonismi in seno a una società riconciliata e trasparente nei confronti di se stessa non ha più validità della visione iperconcorrenziale (liberale, razzista o nazionalista) che fa della vita una perpetua guerra tra individui o gruppi. Se anche l’aggressività è parte integrante dell’attività creativa e della dinamica della vita, l’evoluzione ha favorito nell’uomo l’emergere di comportamenti cooperativi (altruistici) che non sempre vengono tenuti nella sola sfera della sua parentela genetica. D’altro canto, le grandi costruzioni storiche hanno potuto durare solo stabilendo un’armonia fondata sul riconoscimento di beni comuni, sulla reciprocità fra diritti e doveri, sul mutuo soccorso e sulla suddivisione. Né pacifica né bellicosa, né buona né cattiva, né bella né brutta, l’esistenza umana si svolge in una tensione tragica fra questi poli attrattivi e repulsivi.

3. La società: un corpo di comunità
L’esistenza umana è indissociabile dalle comunità e dagli insiemi sociali nei quali si colloca. L’idea di uno "stato di natura" primitivo in cui avrebbero coesistito individui autonomi è una pura finzione: la società non risulta da un contratto che gli uomini sottoscrivono con l’obiettivo di massimizzare il proprio interesse, bensì da un’associazione spontanea la cui forma più antica è sicuramente la famiglia allargata.
Le comunità nelle quali si incarna lo stato sociale disegnano un tessuto complesso di corpi intermedi situati fra l’individuo, i gruppi di individui e l’umanità. Alcune di esse sono ereditate (native), altre vengono scelte (cooperative). Il legame sociale, del quale la vecchia destra non è mai stata capace di riconoscere l’autonomia e che non si confonde affatto con la sola "società civile", si definisce in primo luogo come un modello per le azioni degli individui, non come l’effetto globale di tali azioni; si fonda su un consenso condiviso verso questa anteriorità del modello. L’appartenenza collettiva non annulla l’identità individuale, ma ne costituisce la base: quando si abbandona la comunità di origine, in genere lo si fa per raggiungerne un’altra. Native o cooperative, le comunità hanno tutte come fondamento la reciprocità. Le comunità si costruiscono e si conservano nella certezza, provata da ciascuno dei loro componenti, che tutto ciò che viene richiesto a loro può e deve essere richiesto anche agli altri. Reciprocità verticale dei diritti e dei doveri, della contribuzione e della redistribuzione, dell’obbedienza e dell’assistenza; reciprocità orizzontale dei doni e dei controdoni, della fraternità, dell’amicizia, dell’amore. La ricchezza della vita sociale è proporzionale alla diversità delle appartenenze che propone: tale diversità è continuamente minacciata per difetto (conformizzazione, indifferenziazione) o per eccesso (secessione, atomizzazione). 

La concezione olista, secondo la quale il tutto eccede la somma delle sue parti e possiede qualità che gli sono proprie, è stata combattuta dall’individualismo universalistico moderno, che ha associato la comunità alla gerarchia subita, alla chiusura o allo spirito di campanile. Questo individualismo universalistico si è manifestato nelle due figure del contratto (politico) e del mercato (economico). Ma, in realtà, la modernità non ha liberato l’uomo affrancandolo dalle antiche appartenenze familiari, locali, tribali, corporative o religiose. Non ha fatto altro che assoggettarlo ad altre costrizioni, più dure perché più lontane, più impersonali e più esigenti: una soggezione meccanica, astratta ed omogenea ha preso il posto dei multiformi contesti organici. Diventando più solitario, l’uomo è diventato anche più vulnerabile e più sguarnito. Si è distaccato dal senso perché non può più identificarsi in un modello, perché per lui non ha più senso porsi dal punto di vista del tutto sociale. L’individualismo è sfociato nella perdita di affiliazioni e nella messa in disparte, nella crisi delle istituzioni (la famiglia, ad esempio, non socializza più) e nella captazione del legame sociale da parte delle burocrazie statali. Al momento del bilancio, il grande progetto di emancipazione moderno può essere analizzato come un’alienazione su grande scala. Dato che tendono a radunare individui che si sentono estranei gli uni agli altri e non manifestano più alcuna fiducia reciproca, le società moderne non possono ipotizzare alcun rapporto sociale che non sia sottomesso ad un’istanza "neutrale" di regolamentazione. Le cui forme pure sono lo scambio (sistema mercantile della legge del più forte) e la sottomissione (sistema totalitario di obbedienza all’onnipotente Stato centrale). La forma mista che va attualmente affermandosi si traduce in una proliferazione di regole giuridiche astratte che passano gradualmente al setaccio ogni aspetto dell’esistenza, in modo tale che il rapporto con gli altri diventa oggetto di un controllo permanente, mirante a scongiurare la minaccia di implosione. 

Soltanto il ritorno alle comunità e alle aggregazioni politiche di dimensioni umane permetterà di rimediare all’emarginazione, alla dissoluzione del legame sociale, alla sua reificazione e alla sua giuridicizzazione.

4 Il politico: un’essenza e un’arte
Il politico è legato al fatto che le finalità della vita sociale sono sempre molteplici. Possiede un’essenza e leggi proprie, che non sono riducibili né alla razionalità economica né all’etica, né all’estetica, né alla metafisica, né al sacro. Presuppone che vengano distinte e accettate nozioni come quelle di pubblico e privato, comando e obbedienza, deliberazione e decisione, cittadino e straniero, amico e nemico. Se vi è una morale in politica – dal momento che l’autorità punta al bene comune e si ispira alla norma composta dai valori e dalle abitudini della collettività al cui interno viene esercitata –, ciò non significa per questo che una morale individuale sia politicamente applicabile. I regimi che rifiutano di riconoscere l’essenza del politico, che negano la pluralità dei fini o che favoriscono la spoliticizzazione, sono per definizione "impolitici". 

Il pensiero moderno ha sviluppato l’idea illusoria di una "neutralità" della politica, riducendo il potere all’efficacia amministrativa, all’applicazione meccanica di norme giuridiche, tecniche o economiche: il "governo degli uomini" avrebbe dovuto essere ricalcato sull’"amministrazione delle cose". Ma la sfera pubblica è tuttora il luogo di affermazione di una visione particolare della "vita buona". Da questa concezione che ci si fa del bene discende l’idea di ciò che è giusto, e non l’inverso.
Il primo scopo di ogni azione politica è, all’interno, far regnare la pace civile, ovvero la sicurezza e l’armonia fra i componenti della società, e all’esterno proteggerli dalle minacce. In rapporto a tale scopo, la scelta che viene operata tra valori in concorrenza (maggiore libertà, eguaglianza, unità, diversità, solidarietà, ecc.) contiene necessariamente in sé una componente di arbitrarietà: non si dimostra, ma si afferma e si giudica sulla base dei risultati. La diversità tra le visioni del mondo è una delle condizioni che consentono al politico di emergere. La democrazia, dal momento che riconosce il pluralismo delle aspirazioni e dei progetti e mira ad organizzarne il confronto pacifico a tutti i livelli della vita pubblica, è un regime eminentemente politico. Sotto questo profilo, è preferibile alle classiche confische della legittimità da parte del denaro (plutocrazia), della competenza (tecnocrazia), della legge divina (teocrazia) o dell’eredità (monarchia), ma altresì alle forme più recenti di neutralizzazione del politico attraverso la morale (ideologia dei diritti dell’uomo), l’economia (globalizzazione mercantile), il diritto (governo dei giudici) o i media (società dello spettacolo). Se l’individuo come persona si mette alla prova all’interno di una comunità, come cittadino si costruisce nella democrazia, unico regimo che gli offre la partecipazione alle discussioni e alle decisioni pubbliche, nonché l’eccellenza attraverso l’educazione e la costruzione di sé.
La politica non è una scienza, abbandonata alla ragione o al solo metodo, bensì un’arte, che esige in primo luogo la prudenza. Essa implica sempre un’incertezza, una pluralità di scelte, una decisione sulle finalità. L’arte di governare conferisce un potere di arbitrato fra le possibilità, congiunto ad una capacità di costrizione. Il potere è sempre soltanto un mezzo, che vale esclusivamente in funzione delle finalità a cui si suppone serva. 

In Jean Bodin, erede dei legisti, la fonte dell’indipendenza e della libertà risiede in una illimitata sovranità del potere del principe, concepita sul modello del potere assolutistico papale. Questa concezione è quella di una "teologia politica" fondata sull’idea di un organo politico supremo, un "Leviatano" (Hobbes) che si presume controlli i corpi, le menti e le anime. Essa ha ispirato lo Stato nazionale assolutista, unificato, centralizzato, che non sopporta né i poteri locali né la condivisione del diritto con poteri territoriali vicini e si crea tramite l’unificazione amministrativa e giuridica, l’eliminazione dei corpi intermedi (accusati di essere delle "feudalità") e il progressivo sradicamento delle culture locali. Ed è progressivamente sfociata nell’assolutismo monarchico, nel giacobinismo rivoluzionario e poi nei moderni totalitarismi; ma anche nella "Repubblica senza cittadini", dove non esiste più niente tra la società civile atomizzata e lo Stato amministrativo. A questo modello di società politica la Nuova Destra oppone quello, ereditato da Altusio, in cui la fonte dell’indipendenza e della libertà risiede nell’autonomia e lo Stato si definisce innanzitutto come una federazione di comunità organizzate e di molteplici lealtà. 

In questa concezione, che ha ispirato le costruzioni imperiali e federali, l’esistenza di una delega al sovrano non fa mai perdere al popolo la facoltà di fare o di abrogare le leggi. Il popolo, nelle sue
diverse collettività organizzate (o "stati") è l’unico detentore ultimo della sovranità. I governanti sono superiori a qualunque cittadino preso individualmente, ma rimangono sempre inferiori alla volontà generale espressa dal corpo dei cittadini. Il principio di sussidiarietà si applica a tutti i livelli. La libertà di una collettività non è in antinomia con una sovranità condivisa. L’ambito del politico, infine, non si riduce allo Stato: la persona pubblica si definisce come uno spazio pieno, un tessuto continuo di gruppi, famiglie, associazioni, collettività locali, regionali, nazionali o sovranazionali. Il politico non consiste nel negare questa continuità organica, ma nel basarsi su di essa. L’unità politica discende da una diversità riconosciuta; in altre parole, deve venire a patti con una certa "opacità" del sociale: la perfetta "trasparenza" della società nei confronti di se stessa è un’utopia che non incoraggia la comunicazione democratica, ma, al contrario, favorisce la sorveglianza totalitaria.

giovedì 22 settembre 2016

La Nuova Destra (II)



Oggi continuiamo ad iilustrarne il "Cartello Politico" de "La Nuova Destra" sempre attraverso quanto ho trovato, scritto da Alain de Benoist e Charles Champetier
su "DIORAMA LETTERARIO" - Numero 229-230 (ottobre-novembre 1999). Buona lettura, Giorgio.


I. SITUAZIONI
Ogni pensiero critico è prima di tutto una visione prospettica dell’epoca in cui si manifesta. Noi oggi ci situiamo in un periodo-cardine, una svolta sotto forma di "interregno", che si inserisce sullo sfondo di una crisi di grande importanza: la fine della modernità.

1. Che cos’è la modernità?
La modernità designa il movimento politico e filosofico degli ultimi tre secoli della storia occidentale. Si caratterizza principalmente per cinque processi convergenti: l’individualizzazione, attraverso la distruzione delle vecchie comunità di appartenenza; la massificazione, attraverso l’adozione di comportamenti e modi di vita standardizzati; la desacralizzazione, attraverso il riflusso dei grandi racconti religiosi a vantaggio di una interpretazione scientifica del mondo; la razionalizzazione, attraverso il dominio della ragione strumentale tramite lo scambio mercantile e l’efficacia tecnica; l’universalizzazione, attraverso l’estensione planetaria di un modello di società implicitamente considerato come l’unico razionalmente possibile, e quindi come superiore.
Questo movimento ha radici antiche. Per più di un verso, rappresenta una secolarizzazione di nozioni e prospettive prese a prestito dalla metafisica cristiana, che sono state trasferite sulla vita profana dopo averle svuotate di ogni dimensione di trascendenza. Nel cristianesimo troviamo infatti in germe le grandi trasformazioni che hanno irrigato le ideologie laiche dell’era post-rivoluzionaria. L’individualismo già presente nel concetto di salvezza individuale e di rapporto intimo privilegiato che il credente intrattiene con Dio, rapporto che prevale su qualunque radicamento terreno. L’egualitarismo trova la sua sorgente nell’idea che gli uomini siano tutti egualmente chiamati alla redenzione, in quanto tutti a pari titolo dotati di un’anima individuale il cui valore assoluto è condiviso dall’intera umanità. Il progressismo nasce dall’idea che la storia possiede un inizio assoluto e una fine necessaria, il suo sviluppo essendo globalmente assimilato al piano divino. L’universalismo, infine, è l’espressione naturale di una religione che afferma di detenere una verità rivelata, valida per tutti gli uomini e che ne esige la conversione. La stessa vita politica si fonda su concetti teologici secolarizzati. Il cristianesimo, oggi ridotto alla condizione di un’opinione fra le altre, è stato a sua volta vittima, suo malgrado, di quel movimento che ha avviato: nella storia dell’Occidente, lo si ricorderà come la religione dell’uscita dalla religione.
Le diverse scuole filosofiche della modernità, in concorrenza e a volte in contrasto nei rispettivi
fondamenti, si trovano nondimeno d’accordo sull’essenziale: l’idea che esista una soluzione unica e universalizzabile per tutti i fenomeni sociali, morali e politici. In questo quadro, l’umanità è percepita come una somma di individui razionali che, per interesse, per convinzione morale, per simpatia o anche per paura, sono chiamati a realizzare la loro unità nella storia. In questa prospettiva, la diversità del mondo diventa un ostacolo e tutto ciò che differenzia gli uomini è visto come accessorio o contingente, superato o pericoloso. Nella misura in cui non è stata solamente un corpus di idee, ma anche una modalità di azione, la modernità ha cercato in tutti i modi di strappare gli individui alle loro appartenenze particolari, con lo scopo di sottometterli a un modo universale di associazione. Il più efficace, nell’uso, si è dimostrato il mercato.

2. La crisi della modernità
L’immaginario della modernità è stato dominato dai desideri di libertà e di eguaglianza. Questi due valori cardinali sono stati traditi. Staccati dalle comunità che li proteggevano, dando senso e forma alla loro esistenza, gli individui si trovano ormai sotto il tallone di immensi meccanismi di dominio e di decisione al cospetto dei quali la loro libertà resta puramente formale. Essi subiscono il potere globalizzato del mercato, della tecnoscienza o della comunicazione senza mai poter deciderne il corso. Anche la promessa di eguaglianza ha subìto un duplice fallimento: il comunismo l’ha tradita instaurando i regimi totalitari più omicidi della storia; il capitalismo se ne è fatto gioco legittimando con una eguaglianza di principio le ineguaglianze economiche e sociali più odiose. La modernità ha proclamato dei "diritti" senza peraltro offrire i mezzi per esercitarli. Ha esasperato tutti i bisogni e ne crea di continuo di nuovi, riservando però l’accesso ad essi a una piccola minoranza, il che alimenta la frustrazione e la collera di tutti gli altri. Dal canto suo, l’ideologia del progresso, che aveva risposto all’attesa degli uomini coltivando la promessa di un mondo sempre migliore, oggi attraversa una crisi radicale: il futuro, che si sta rivelando imprevedibile, non è più portatore di speranza, ma incute paura ai più. Ogni generazione affronta ormai un mondo diverso da quello dei padri: questa perpetua novità fondata sulla squalifica della filiazione e delle vecchie esperienze, aggiunta alla trasformazione continuamente accelerata dei modi di vita e degli ambienti dove si vive, non produce felicità, bensì angoscia. La "fine delle ideologie" designa l’esaurimento storico dei grandi racconti mobilitanti che si sono incarnati nel liberalismo, nel socialismo, nel comunismo, nel nazionalismo, nel fascismo o nel nazismo.
Il XX secolo ha suonato a morto per la maggior parte di queste dottrine, i cui effetti concreti sono stati i genocidi, gli etnocidi e i massacri di massa, le guerre totali tra le nazioni e la concorrenza permanente tra gli individui, i disastri ecologici, il caos sociale, la perdita di tutti i punti di riferimento significativi.
Distruggendo il mondo vissuto a profitto della ragione strumentale, la crescita e lo sviluppo materiali si sono tradotti in un impoverimento senza precedenti dello spirito. Hanno generalizzato la preoccupazione, l’inquietudine di vivere in un presente sempre incerto, in un mondo privo sia di passato che di futuro. La modernità ha così partorito la civiltà più vuota che l’umanità abbia mai conosciuto: il linguaggio pubblicitario è diventato il paradigma di tutti i linguaggi sociali; il regno del denaro impone l’onnipresenza della merce; l’uomo si trasforma in oggetto di scambio in un’atmosfera di edonismo povero; la tecnica rinserra il mondo vissuto nella rete pacificata e razionalizzata del riserbo; la delinquenza, la violenza e l’inciviltà si propagano in una guerra di tutti contro tutti e di ciascuno contro se stesso; l’individuo, incerto, sguazza nei mondi derealizzati della droga, del virtuale e del massmediale; le campagne si desertificano, trasformandosi in periferie invivibili e in megalopoli mostruose; l’individuo solitario si fonde in una folla anonima ed ostile, mentre le vecchie mediazioni sociali, politiche, culturali o religiose diventano sempre più incerte e indifferenziate.
Questa crisi diffusa che stiamo attraversando segnala che la modernità giunge alla fine, nel momento stesso in cui l’utopia universalista che ne era a fondamento si sta trasformando in una realtà sotto l’egida della globalizzazione liberale. La fine del XX secolo segna, contemporaneamente alla fine dei tempi moderni, l’ingresso in una postmodernità caratterizzata da una serie di tematiche nuove: l’emergere della preoccupazione ecologica, la ricerca della qualità della vita, il ruolo delle "tribù" e delle "reti", il recupero di importanza delle comunità, la politica di riconoscimento dei gruppi, la moltiplicazione dei conflitti infra-o sovra-statali, il ritorno delle violenze sociali, il declino delle religioni istituzionalizzate, la crescente opposizione dei popoli alle loro élites, e così via. Non avendo più nulla da dire e constatando il crescente malessere delle società contemporanee, i sostenitori dell’ideologia dominante sono ridotti a dover tenere un discorso incantatorio, martellato dai media in un universo in pericolo di implosione. Implosione, non più esplosione: il superamento della modernità non assumerà la forma di un "grande tramonto" (versione profana della parusia), ma si manifesterà attraverso l’apparizione di migliaia di aurore, cioè tramite la dischiusura di spazi sovrani liberati dal dominio moderno. La modernità non sarà oltrepassata con un ritorno all’indietro, ma con un ricorso a taluni valori premoderni in un’ottica risolutamente postmoderna. L’anomia sociale e il nichilismo contemporaneo saranno scongiurati a prezzo di una rifondazione radicale di tale portata.

3. Il liberalismo, nemico principale
Il liberalismo incarna l’ideologia dominante della modernità, la prima ad apparire, che sarà anche l’ultima a scomparire. In un primo tempo, il pensiero liberale ha reso autonoma l’economia rispetto alla morale, alla politica e alla società, nelle quali era precedentemente incastonata. In un secondo tempo, esso ha fatto del valore mercantile l’istanza suprema dell’intera vita comune. L’avvento del "regno della quantità" designa questo passaggio dalle economie di mercato alle società di mercato, vale a dire l’estensione a tutti gli ambiti dell’esistenza delle leggi dello scambio mercantile coronato dalla "mano invisibile". Il liberalismo, d’altronde, ha generato l’individualismo moderno sulla base di un’antropologia falsa tanto dal punto di vista descrittivo che da quello normativo, fondata su un individuo unidimensionale che trae i propri "diritti imprescrittibili" da una "natura"fondamentalmente non sociale e che si suppone cerchi di massimizzare di continuo il proprio interesse eliminando ogni considerazione non quantificabile e ogni valore che non discenda dal calcolo razionale.
Questa duplice pulsione individualista ed economicista si accompagna a una visione "darwiniana" della vita sociale. Quest’ultima è ricondotta in ultima analisi alla concorrenza generalizzata, nuova versione della "guerra di tutti contro tutti", allo scopo di selezionare i "migliori". Ma, a parte il fatto che la concorrenza "pura e perfetta" è un mito, dal momento che le preesistono sempre dei rapporti di forza, essa non dice assolutamente niente sul valore di quel che viene selezionato: ne scaturiscono sia il meglio che il peggio. L’evoluzione seleziona i più adatti a sopravvivere, ma l’uomo non si accontenta, per l’appunto, di sopravvivere: egli ordina la propria vita sulla base di gerarchie di valori nei confronti dei quali il liberalismo pretende di rimanere neutrale.
Il carattere iniquo del dominio liberale ha provocato nel XIX secolo una legittima reazione, con
l’apparizione del movimento socialista; ma quest’ultimo si è fuorviato sotto l’influsso delle teorie marxiste. Ebbene: malgrado ciò che li contrappone, liberalismo e marxismo appartengono fondamentalmente al medesimo universo, ereditato dal pensiero dei Lumi: lo stesso individualismo di fondo, lo stesso universalismo egualitario, lo stesso razionalismo, lo stesso primato del fattore economico, la stessa insistenza sul valore emancipatore del lavoro, la stessa fede nel progresso, la stessa aspirazione alla fine della storia. Da vari punti di vista, il liberalismo si è limitato a realizzare con maggiore efficacia alcuni degli obiettivi che condivideva con il marxismo: sradicamento delle identità collettive e delle culture tradizionali, disincanto del mondo, universalizzazione del sistema di produzione.
I danni causati dal mercato hanno provocato, nello stesso modo, l’apparizione e il rafforzamento dello Stato assistenziale. Nel corso della storia, il mercato e lo Stato avevano già fatto la loro comparsa di pari passo; il secondo cercava di assoggettare a prelievo fiscale degli scambi intracomunitari non mercantili, che in precedenza non potevano essere rilevati, e faceva di uno spazio economico omogeneo uno strumento della propria potenza. In seguito, la dissoluzione dei legami comunitari provocata dalla mercantilizzazione della vita sociale ha reso necessario il progressivo rafforzamento di uno Stato assistenziale incaricato di procedere alle redistribuzioni necessarie per ovviare alla scomparsa delle solidarietà tradizionali. Lungi dall’ostacolare la corsa del liberalismo, quegli interventi statali gli hanno consentito di prosperare evitando l’esplosione sociale, quindi assicurando la sicurezza e la stabilità indispensabili agli scambi. In cambio, però, lo Stato assistenziale, il quale non è altro che una struttura redistributiva astratta, anonima ed opaca, ha generalizzato l’irresponsabilità, trasformando i componenti della società in altrettanti assistiti, che non reclamano più tanto il rovesciamento del sistema liberale, quanto piuttosto l’estensione indefinita e senza contropartita dei diritti di cui godono.
Inoltre, il liberalismo comporta la negazione della specificità del politico, la quale implica sempre l’arbitrarietà della decisione e la pluralità delle finalità. La "politica liberale" appare, da questo punto di vista, come una contraddizione in termini. Mirando a formare il legame sociale a partire da una teoria della scelta razionale che indicizza la cittadinanza sull’utilità, essa si riduce a un ideale di gestione "scientifica" della società globale, che pone sotto l’esclusivo orizzonte della competenza tecnica. Lo Stato di diritto liberale, troppo spesso sinonimo di repubblica dei giudici, crede contemporaneamente di poter astenersi dal proporre un modello di vita buona ed aspira a neutralizzare i conflitti inerenti alla diversità della società tramite procedure puramente giuridiche miranti a determinare ciò che è giusto piuttosto che ciò che è bene. Lo spazio pubblico si dissolve nello spazio privato, mentre la democrazia rappresentativa si riduce ad un mercato nel quale si incontrano un’offerta sempre più ristretta (riorientamento dei programmi verso il centro e convergenza delle politiche) e una domanda sempre meno motivata (astensionismo).
Nell’epoca della globalizzazione, il liberalismo non si presenta più come un’ideologia, ma come un sistema mondiale di produzione e riproduzione degli uomini e delle merci, sovrastato
dall’ipermoralismo dei diritti dell’uomo. Nelle sue forme economica, politica e morale, il liberalismo rappresenta il blocco centrale delle idee di una modernità che si sta consumando. E quindi l’avversario principale di tutti coloro che operano per il suo superamento.

martedì 20 settembre 2016

La Nuova Destra



A cavallo tra il settembre e l’ottobre del 2009 pubblicavo su un mio vecchio blog, suddivisa in 10 tronconi, “La Nuova Destra”. Ve la riproporrò pari pari anche su “Libero Pensiero”. Iniziamo.





Si è parlato spesso in queste pagine di Alain de Benoist e del movimento "La Nuova Destra", oggi iniziamo ad illustrarne il "Cartello Politico" attraverso quanto ho trovato, scritto da Alain de Benoist e Charles Champetier  su "DIORAMA LETTERARIO" - Numero 229-230 (ottobre-novembre 1999). Divideremo, ovviamente in più tronconi la lettura, buon approfondimento, Giorgio.


La Nuova Destra del 2000

Introduzione

La Nuova Destra è nata nel 1968. Non è un movimento politico ma una scuola di pensiero. Le attività che la contraddistinguono da ormai più di trent’anni (pubblicazione di libri e di riviste, indizione di convegni e di conferenze, organizzazione di seminari e di università estive, ecc.) si collocano sin dall’inizio in una prospettiva metapolitica.

La metapolitica non è un’altra maniera di fare politica. Non ha nulla di una "strategia" mirante ad imporre un’egemonia intellettuale, né pretende squalificare altri possibili approcci o atteggiamenti. Si basa semplicemente sulla constatazione che le idee svolgono un ruolo fondamentale nelle coscienze collettive e, più in generale, nell’intera storia degli uomini. Eraclito, Aristotele, Agostino, Tommaso d’Aquino, Cartesio, Immanuel Kant, Adam Smith o Karl Marx hanno, ai loro tempi, provocato grazie alle loro opere delle rivoluzioni decisive, il cui effetto si fa sentire ancora oggi. La storia è certamente il risultato della volontà e dell’azione degli uomini, ma questa volontà e questa azione si esercitano sempre nel contesto di un certo numero di convinzioni, di credenze, di rappresentazioni che conferiscono loro un senso e le orientano. La Nuova Destra ha l’ambizione di contribuire al rinnovamento di queste rappresentazioni socio-storiche.
Il modo di procedere metapolitico è ancora oggi confortato da una riflessione sull’evoluzione delle società occidentali all’alba del XXI secolo. Si constata infatti, da un lato, la crescente impotenza dei partiti, dei sindacati, dei governi e dell’insieme delle forme classiche di conquista e di esercizio del potere, e, dall’altro, un’accelerata obsolescenza di tutte le linee di frattura che avevano caratterizzato la modernità, a cominciare dal tradizionale distinguo tra sinistra e destra. Si osserva peraltro un’esplosione senza precedenti delle conoscenze, che si moltiplicano senza che le loro conseguenze siano sempre pienamente percepite. In un mondo in cui gli insiemi chiusi hanno ceduto il posto a reti interconnesse e i punti di riferimento si fanno sempre più vaghi, l’azione metapolitica consiste nel tentare di ridare un senso al più alto livello attraverso nuove sintesi, nello sviluppare al di fuori delle giostre politiche un modo di pensare risolutamente trasversale, ed infine nello studiare tutti gli ambiti del sapere al fine di proporre una visione del mondo coerente.

Questo è il nostro obiettivo da trent’anni a questa parte.
Il presente manifesto ne offre la dimostrazione. La sua prima parte ("Situazioni") offre un’analisi critica della nostra epoca. La seconda ("Fondamenti") esprime le basi della nostra visione dell’uomo e del mondo. Entrambe sono ispirate da un approccio multidisciplinare che fa piazza pulita della maggior parte delle linee divisorie intellettuali attualmente riconosciute. Tribalismo e globalismo, nazionalismo e internazionalismo, liberalismo e marxismo, individualismo e collettivismo, progressismo e conservatorismo si contrappongono infatti nella stessa compiacente logica del terzo escluso. Da un secolo, queste contrapposizioni fittizie mascherano il dato essenziale: l’ampiezza di una crisi che impone un rinnovamento radicale dei nostri modi di pensare, di decidere e di agire. Sarebbe perciò impresa vana andare alla ricerca, nelle pagine che seguono, delle tracce di precursori dei quali noi non saremmo altro che gli eredi: la Nuova Destra ha saputo far fruttare le più diverse acquisizioni teoriche che l’hanno preceduta. Praticando una lettura estensiva della storia delle idee, essa non esita a far proprie quelle che le paiono giuste in tutte le correnti di pensiero. Questo modo di procedere trasversale provoca peraltro regolarmente la collera dei cerberi del pensiero, che si trovano d’accordo per congelare le ortodossie ideologiche al fine di paralizzare qualunque nuova sintesi che minacci la loro confortevole situazione intellettuale.
Sin dalle origini, infine, la Nuova destra raccoglie uomini e donne che vivono nella loro città ed intendono partecipare in maniera vissuta alla sua crescita. In Francia come in altri paesi, essa costituisce una comunità di lavoro e di riflessione, i cui membri non sono necessariamente degli intellettuali ma si interessano tutti, a questo o a quel titolo, alla battaglia delle idee. La terza parte di questo manifesto ("Orientamenti") esprime quindi la nostra posizione sui grandi dibattiti dell’attualità e i nostri orientamenti per il futuro dei nostri popoli e della nostra civiltà.