Continuiamo ad
iilustrare il "Cartello Politico" de "La Nuova Destra"
sempre attraverso quanto ho trovato, scritto da Alain de Benoist e Charles Champetier su "DIORAMA LETTERARIO" - Numero 229-230 (ottobre-novembre
1999). Buona lettura, Giorgio.
II. Fondamenti
"Conosci te stesso", diceva la massima delfica. La chiave di
ogni rappresentazione del mondo, di ogni impegno politico, morale o filosofico
risiede prima di tutto in un’antropologia. Le nostre azioni su compiono del
resto attraverso certi ordini della prassi, che rappresentano altrettante
essenze delle relazioni degli uomini fra di loro e con il mondo: il politico,
l’economico, la tecnica e l’etica.
1. L’uomo: un momento del vivente
La modernità ha negato l’esistenza di una natura umana (teoria della
tabula rasa) oppure l’ha rapportata a dei predicati astratti sconnessi dal
mondo reale e dall’esistenza vissuta. A prezzo di questa rottura radicale è
emerso l’ideale di un "uomo nuovo", malleabile all’infinito tramite
la trasformazione progressiva o brutale del suo ambiente. Questa utopia è
sfociata nelle esperienze totalitarie e nei sistemi concentrazionari del XX
secolo. Nel mondo liberale, si è tradotta nella credenza superstiziosa
nell’onnipotenza dell’ambiente, che ha generato non meno delusioni, in
particolare nell’ambito educativo: in una società strutturata dall’uso della
razionalità astratta, sono infatti le capacità cognitive a costituire il
principale elemento di determinazione dello status sociale. L’uomo è
innanzitutto un animale e come tale si colloca nell’ordine del vivente, la cui
durata si misura in centinaia di milioni di anni. Se si compara la storia della
vita organica a una giornata di 24 ore, l’apparizione della nostra specie
interviene soltanto negli ultimi trenta secondi. Il processo di
ominizzazione si è svolto lungo parecchie decine di migliaia di
generazioni. Nella misura in cui la vita si espande prima di tutto per
trasmissione dell’informazione contenuta nel materiale genetico, l’uomo non
nasce come una pagina bianca: ciascuno di noi è già portatore delle
caratteristiche generali della nostra specie, alle quali si aggiungono
predisposizioni ereditarie a certe attitudini particolari e a certi comportamenti.
L’individuo non decide questa eredità, che ne limita l’autonomia e la
plasticità ma gli permette anche di resistere ai condizionamenti politici e
sociali.
L’uomo però non è soltanto un animale: ciò che vi è in lui di
specificamente umano – coscienza della propria coscienza, pensiero astratto,
linguaggio sintattico, capacità simbolica, attitudine alla constatazione
oggettiva e al giudizio di valore – non contraddice la sua natura, ma la
prolunga, conferendole una dimensione supplementare ed unica. Negare le
determinazioni biologiche dell’uomo o ridurlo ad esse riconducendone i tratti
specifici alla zoologia sono dunque due atteggiamenti egualmente assurdi. La
componente ereditaria della nostra umanità forma soltanto lo zoccolo della
nostra vita sociale e storica: dato che i suoi istinti non sono programmati nel
loro oggetto, l’uomo è sempre titolare di una parte di libertà (deve fare delle
scelte sia morali che politiche) il cui unico vero limite naturale è la morte.
L’uomo è prima di tutto un erede, ma può disporre della sua eredità. Noi ci
costruiamo storicamente e culturalmente sulla base dei presupposti della nostra
costituzione biologica, che sono il limite della nostra umanità. Ciò che sta al
di là di questo limite può essere chiamato Dio, cosmos, nulla o Essere: la
questione del "perché" non vi ha più alcun senso, giacché ciò che si
trova al di là dei limiti umani è, per definizione, impensabile.
La Nuova Destra propone dunque una visione dell’uomo equilibrata, che
tenga conto nel contempo dell’innato, delle capacità personali e dell’ambiente
sociale. Essa rifiuta le ideologie che mettono abusivamente l’accento su uno
solo di questi fattori di determinazione: biologico, economico o meccanico che
sia.
2. L’uomo: un essere radicato, a
rischio e aperto
L’uomo non è per natura né buono né cattivo, ma è capace di essere l’uno
o l’altro. Da questo punto di vista è un essere aperto e "a rischio",
sempre suscettibile di oltrepassarsi o di degradarsi. Le regole sociali e
morali, così come le istituzioni e le tradizioni, permettono di scongiurare
questa minaccia permanente, facendo sì che l’uomo si impegni a costruirsi nel
riconoscimento delle norme che fondano la sua esistenza conferendole senso e
punti di riferimento. L’umanità, definita come l’insieme indistinto degli
individui che la compongono, designa o una categoria biologica (la specie), o
una categoria filosofica scaturita dal pensiero occidentale. Dal punto di vista
socio-storico, l’uomo in sé non esiste, perché l’appartenenza all’umanità è sempre
mediata a una particolare appartenenza culturale. Questa constatazione non è un
portato del relativismo. Tutti gli uomini hanno in comune la natura umana,
senza la quale non potrebbero capirsi, ma la loro comune appartenenza alla
specie si esprime sempre a partire da un contesto particolare. Essi condividono
le stesse aspirazioni essenziali, che si cristallizzano però sempre in forme
differenti, a seconda delle epoche e dei luoghi. L’umanità, in questo senso, è
irriducibilmente plurale: la diversità fa parte della sua stessa essenza. La
vita umana si colloca necessariamente all’interno di un contesto che precede il
giudizio, foss’anche critico, che gli individui e i gruppi esprimono sul mondo,
e modella tanto le aspirazioni quanto la finalità che sono loro proprie: nel
mondo reale esistono soltanto persone concretamente situate. Le differenze
biologiche non sono, in sé, significative se non in riferimento a dati
culturali e sociali.
Quanto poi alle differenze tra le culture, esse non sono
né l’effetto di un’illusione né caratteristiche transitorie, contingenti o
secondarie. Le culture hanno tutte un proprio "centro di gravità",
come lo definiva Herder: culture diverse danno risposte diverse ai quesiti
essenziali. Per questo ogni tentativo di unificarle finisce col distruggerle.
L’uomo si colloca per natura nel registro della cultura: essere caratterizzato
dalla singolarità, si situa sempre all’interfaccia tra l’universale (la sua
specie) e il particolare (ciascuna cultura, ciascuna epoca). L’idea di una legge
assoluta, universale ed eterna, chiamata a determinare in ultima istanza le
nostre scelte morali, religiose o politiche appare dunque priva di fondamento.
Tale idea è alla base di tutti i totalitarismi.
Le società umane sono nel contempo conflittuali e comunicative, senza
che si possa estendere una di queste caratteristiche a beneficio dell’altra. La
fede irenica nella possibilità di far scomparire gli antagonismi in seno a una società riconciliata e trasparente nei
confronti di se stessa non ha più validità della visione iperconcorrenziale
(liberale, razzista o nazionalista) che fa della vita una perpetua guerra tra
individui o gruppi. Se anche l’aggressività è parte integrante dell’attività
creativa e della dinamica della vita, l’evoluzione ha favorito nell’uomo
l’emergere di comportamenti cooperativi (altruistici) che non sempre vengono
tenuti nella sola sfera della sua parentela genetica. D’altro canto, le grandi
costruzioni storiche hanno potuto durare solo stabilendo un’armonia fondata sul
riconoscimento di beni comuni, sulla reciprocità fra diritti e doveri, sul
mutuo soccorso e sulla suddivisione. Né pacifica né bellicosa, né buona né
cattiva, né bella né brutta, l’esistenza umana si svolge in una tensione
tragica fra questi poli attrattivi e repulsivi.
3. La società: un corpo di
comunità
L’esistenza umana è indissociabile dalle comunità e dagli insiemi
sociali nei quali si colloca. L’idea di uno "stato di natura"
primitivo in cui avrebbero coesistito individui autonomi è una pura finzione:
la società non risulta da un contratto che gli uomini sottoscrivono con
l’obiettivo di massimizzare il proprio interesse, bensì da un’associazione
spontanea la cui forma più antica è sicuramente la famiglia allargata.
Le comunità nelle quali si incarna lo stato sociale disegnano un tessuto
complesso di corpi intermedi situati fra l’individuo, i gruppi di individui e
l’umanità. Alcune di esse sono ereditate (native), altre vengono scelte
(cooperative). Il legame sociale, del quale la vecchia destra non è mai stata
capace di riconoscere l’autonomia e che non si confonde affatto con la sola
"società civile", si definisce in primo luogo come un modello per le
azioni degli individui, non come l’effetto globale di tali azioni; si fonda su
un consenso condiviso verso questa anteriorità del modello. L’appartenenza
collettiva non annulla l’identità individuale, ma ne costituisce la base:
quando si abbandona la comunità di origine, in genere lo si fa per raggiungerne
un’altra. Native o cooperative, le comunità hanno tutte come fondamento la
reciprocità. Le comunità si costruiscono e si conservano nella certezza,
provata da ciascuno dei loro componenti, che tutto ciò che viene richiesto a
loro può e deve essere richiesto anche agli altri. Reciprocità verticale dei
diritti e dei doveri, della contribuzione e della redistribuzione,
dell’obbedienza e dell’assistenza; reciprocità orizzontale dei doni e dei
controdoni, della fraternità, dell’amicizia, dell’amore. La ricchezza della
vita sociale è proporzionale alla diversità delle appartenenze che propone:
tale diversità è continuamente minacciata per difetto (conformizzazione,
indifferenziazione) o per eccesso (secessione, atomizzazione).
La concezione olista, secondo la quale il tutto eccede la somma delle
sue parti e possiede qualità che gli sono proprie, è stata combattuta
dall’individualismo universalistico moderno, che ha associato la comunità alla
gerarchia subita, alla chiusura o allo spirito di campanile. Questo
individualismo universalistico si è manifestato nelle due figure del contratto
(politico) e del mercato (economico). Ma, in realtà, la modernità non ha
liberato l’uomo affrancandolo dalle antiche appartenenze familiari, locali,
tribali, corporative o religiose. Non ha fatto altro che assoggettarlo ad altre
costrizioni, più dure perché più lontane, più impersonali e più esigenti: una
soggezione meccanica, astratta ed omogenea ha preso il posto dei multiformi
contesti organici. Diventando più solitario, l’uomo è diventato anche più
vulnerabile e più sguarnito. Si è distaccato dal senso perché non può più
identificarsi in un modello, perché per lui non ha più senso porsi dal punto di
vista del tutto sociale. L’individualismo è sfociato nella perdita di
affiliazioni e nella messa in disparte, nella crisi delle istituzioni (la
famiglia, ad esempio, non socializza più) e nella captazione del legame sociale
da parte delle burocrazie statali. Al momento del bilancio, il grande progetto
di emancipazione moderno può essere analizzato come un’alienazione su grande
scala. Dato che tendono a radunare individui che si sentono estranei gli uni
agli altri e non manifestano più alcuna fiducia reciproca, le società moderne
non possono ipotizzare alcun rapporto sociale che non sia sottomesso ad
un’istanza "neutrale" di regolamentazione. Le cui forme pure sono lo
scambio (sistema mercantile della legge del più forte) e la sottomissione
(sistema totalitario di obbedienza all’onnipotente Stato centrale). La forma
mista che va attualmente affermandosi si traduce in una proliferazione di regole
giuridiche astratte che passano gradualmente al setaccio ogni aspetto
dell’esistenza, in modo tale che il rapporto con gli altri diventa oggetto di
un controllo permanente, mirante a scongiurare la minaccia di implosione.
Soltanto il ritorno alle comunità e alle aggregazioni politiche di
dimensioni umane permetterà di rimediare all’emarginazione, alla dissoluzione
del legame sociale, alla sua reificazione e alla sua giuridicizzazione.
4 Il politico: un’essenza e
un’arte
Il politico è legato al fatto che le finalità della vita sociale sono
sempre molteplici. Possiede un’essenza e leggi proprie, che non sono riducibili
né alla razionalità economica né all’etica, né all’estetica, né alla
metafisica, né al sacro. Presuppone che vengano distinte e accettate nozioni
come quelle di pubblico e privato, comando e obbedienza, deliberazione e
decisione, cittadino e straniero, amico e nemico. Se vi è una morale in
politica – dal momento che l’autorità punta al bene comune e si ispira alla
norma composta dai valori e dalle abitudini della collettività al cui interno
viene esercitata –, ciò non significa per questo che una morale individuale sia
politicamente applicabile. I regimi che rifiutano di riconoscere l’essenza del
politico, che negano la pluralità dei fini o che favoriscono la
spoliticizzazione, sono per definizione "impolitici".
Il pensiero moderno ha sviluppato l’idea illusoria di una
"neutralità" della politica, riducendo il potere all’efficacia
amministrativa, all’applicazione meccanica di norme giuridiche, tecniche o
economiche: il "governo degli uomini" avrebbe dovuto essere ricalcato
sull’"amministrazione delle cose". Ma la sfera pubblica è tuttora il
luogo di affermazione di una visione particolare della "vita buona".
Da questa concezione che ci si fa del bene discende l’idea di ciò che è giusto,
e non l’inverso.
Il primo scopo di ogni azione politica è, all’interno, far regnare la
pace civile, ovvero la sicurezza e l’armonia fra i componenti della società, e
all’esterno proteggerli dalle minacce. In rapporto a tale scopo, la scelta che
viene operata tra valori in concorrenza (maggiore libertà, eguaglianza, unità,
diversità, solidarietà, ecc.) contiene necessariamente in sé una componente di
arbitrarietà: non si dimostra, ma si afferma e si giudica sulla base dei
risultati. La diversità tra le visioni del mondo è una delle condizioni che
consentono al politico di emergere. La democrazia, dal momento che riconosce il
pluralismo delle aspirazioni e dei progetti e mira ad organizzarne il confronto
pacifico a tutti i livelli della vita pubblica, è un regime eminentemente
politico. Sotto questo profilo, è preferibile alle classiche confische della
legittimità da parte del denaro (plutocrazia), della competenza (tecnocrazia),
della legge divina (teocrazia) o dell’eredità (monarchia), ma altresì alle
forme più recenti di neutralizzazione del politico attraverso la morale
(ideologia dei diritti dell’uomo), l’economia (globalizzazione mercantile), il
diritto (governo dei giudici) o i media (società dello spettacolo). Se
l’individuo come persona si mette alla prova all’interno di una comunità, come
cittadino si costruisce nella democrazia, unico regimo che gli offre la
partecipazione alle discussioni e alle decisioni pubbliche, nonché l’eccellenza
attraverso l’educazione e la costruzione di sé.
La politica non è una scienza, abbandonata alla ragione o al solo
metodo, bensì un’arte, che esige in primo luogo la prudenza. Essa implica
sempre un’incertezza, una pluralità di scelte, una decisione sulle finalità.
L’arte di governare conferisce un potere di arbitrato fra le possibilità,
congiunto ad una capacità di costrizione. Il potere è sempre soltanto un mezzo,
che vale esclusivamente in funzione delle finalità a cui si suppone serva.
In Jean Bodin, erede dei legisti, la fonte dell’indipendenza e della
libertà risiede in una illimitata sovranità del potere del principe, concepita
sul modello del potere assolutistico papale. Questa concezione è quella di una
"teologia politica" fondata sull’idea di un organo politico supremo,
un "Leviatano" (Hobbes) che si presume controlli i corpi, le menti e
le anime. Essa ha ispirato lo Stato nazionale assolutista, unificato,
centralizzato, che non sopporta né i poteri locali né la condivisione del
diritto con poteri territoriali vicini e si crea tramite l’unificazione
amministrativa e giuridica, l’eliminazione dei corpi intermedi (accusati di
essere delle "feudalità") e il progressivo sradicamento delle culture
locali. Ed è progressivamente sfociata nell’assolutismo monarchico, nel giacobinismo
rivoluzionario e poi nei moderni totalitarismi; ma anche nella "Repubblica
senza cittadini", dove non esiste più niente tra la società civile
atomizzata e lo Stato amministrativo. A questo modello di società politica la
Nuova Destra oppone quello, ereditato da Altusio, in cui la fonte
dell’indipendenza e della libertà risiede nell’autonomia e lo Stato si
definisce innanzitutto come una federazione di comunità organizzate e di
molteplici lealtà.
In questa concezione, che ha ispirato le costruzioni imperiali e
federali, l’esistenza di una delega al sovrano non fa mai perdere al popolo la
facoltà di fare o di abrogare le leggi. Il popolo, nelle sue
diverse collettività organizzate (o "stati") è l’unico
detentore ultimo della sovranità. I governanti sono superiori a qualunque
cittadino preso individualmente, ma rimangono sempre inferiori alla volontà
generale espressa dal corpo dei cittadini. Il principio di sussidiarietà si
applica a tutti i livelli. La libertà di una collettività non è in antinomia con
una sovranità condivisa. L’ambito del politico, infine, non si riduce allo
Stato: la persona pubblica si definisce come uno spazio pieno, un tessuto
continuo di gruppi, famiglie, associazioni, collettività locali, regionali,
nazionali o sovranazionali. Il politico non consiste nel negare questa
continuità organica, ma nel basarsi su di essa. L’unità politica discende da
una diversità riconosciuta; in altre parole, deve venire a patti con una certa
"opacità" del sociale: la perfetta "trasparenza" della società
nei confronti di se stessa è un’utopia che non incoraggia la comunicazione
democratica, ma, al contrario, favorisce la sorveglianza totalitaria.