sabato 29 ottobre 2011

Decapitare il Leviatano

Dall’inizio della storia repubblicana in avanti ne abbiamo vissute e viste parecchie, ma questa (cosidetta) “crisi economica” ci ha portato veramente alla più grossa azione possibile ai danni del popolo, il quale, malgrado tutto, pare non incazzarsi; anzi sembra quasi abbia già assorbito l’amaro regalo che una classe politica codarda e vigliacca gli ha lasciato in dote.
Dopo decenni di ribaltoni, rinnegamenti, tangenti e quant’altro, dinnanzi all’imperativo economico si sono nascosti dietro la pianta ed hanno eletto senatore a vita un qualcuno che poi emanasse l’inemanabile , lavandosi in tal modo le mani e scaricando su altri la responsabilità di scelte dure, dimenticandosi bellamente che chi viene eletto ha il compito di intraprendere decisioni politiche. A loro difesa il senatore, tirandosi, oltretutto,  fuori dal mazzo ci dice “è colpa degli italiani che non si sono resi conto”.
Ma fosse solo un giochino di parole poco importerebbe, il dramma è che Dracula si trova li perché piazzatoci dai poteri dominanti, i quali hanno collocato i propri uomini direttamente nei posti giusti, disegno internazionale di un potere economico oramai non più appannaggio di una singola e limitata realtà nazionale.
Quando si parla di poteri forti spesso viene fuori come immagine illustrativa quella del Leviatano, un terribile mostro marino dalla leggendaria forza presentato nell'Antico Testamento, tale essere viene considerato come nato dal volere di Dio, nonostante sia spesso associato al Diavolo.
Di esso scrisse Giobbe: “Fa ribollire come pentola il gorgo, fa del mare come un vaso di unguenti. Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura. Lo teme ogni essere più altero; egli è il re su tutte le bestie più superbe.”
Esso, ridotte all’inconsistenza le forze civili, sociali e politiche, non guarda in faccia a provenienze, aderenze o moralità…disposto a mandare a picco nazioni ed economie, famiglie e natura agisce dritto nel solo nome del profitto; del resto un essere così immondo non può che essere il simbolo di una civiltà arrivata alla propria fase terminale, se non peggio ancora l’icona di quanto verrà dopo.
Però anche Davide sconfisse Golia, quindi spinti da una volontà uguale in forza ed opposta in principi a quella della Bestia per i “rivoluzionari”, è giunta l’ora di misurare le proprie forze e le proprie capacità.
Tutto deve essere spinto e gestito dal basso, economia e politica.
Un esempio di economia dal basso sono state le scelte di operai in stabilimenti in fase di chiusura,  essi hanno
coraggiosamente rilevato le aziende, mettendo mano alle proprie liquidazioni ed a finanziamenti vari; qui la politica a gestione diretta e locale potrebbe intervenire con scelte di supporto ad economie sganciate dai poteri forti: interventi tesi a
finanziare micro attività, slegate da ostacoli e vincoli di natura burocratica, il che snellirebbe l’intero comparto economico che attraverso la pratica dell’azionariato diffuso, andrebbero in direzione di una benefica ri-localizzazione dell’economia, il tutto assistito dalla rinascita di un sistema bancario localizzato che smonti il signoraggio.
Le pratiche della Democrazia Diretta e Partecipata, di cui scorrono fiumi di parole in queste pagine,  sono spesso agente integrante delle azioni sopra elencate.
Attenzione non vi sto vendendo del fumo a prezzo basso, so benissimo di quanto difficile sia, di quali conseguenze si potrebbero subire una volta fatta una scelta chiara e senza compromessi, sono consapevole di quanti compagni di viaggio perderemmo nel tragitto e del fatto che ogni voce debba avere il suo spazio decisionale anche frenante o rischieremmo di divenire semplicemente dei black block.
La via non può essere che unica, una corporazione di entità locali federate, supportate dalla Democrazia Diretta, Partecipativa e Referendaria, Deliberativa e Plebiscitaria.
Dal basso e locali perché all’uniformazione globale che ci è stata imposta si può dare un’unica risposta, quella dell’unità nella diversità, nell’immagine di un arcipelago da
contrapporre al monoblocco mondialista.
L’appello oggi è al primo passo: le prossime elezioni, qualunque esse siano, dovranno essere un plebiscito contro la partitocrazia, perché coloro che, eletti dal popolo, nel
momento delle scelte difficili, nell’atto di aggiustare i danni da essi stessi creati, hanno preferito delegare ad altri, non eletti, siano definitivamente estromessi dalla vita politica del paese.
Liberarsi dello schiavismo del signoraggio bancario dovrà essere il secondo punto.
Il terzo punto, che  è però fondamentale alla realizzazione di tutto, è l’uscire dal modo antagonistico in cui si sono gestite le decisioni politiche negli ultimi decenni, occorre  un lavoro di equipe contro sorpassati verticalismi ed una maggior democrazia diretta.
Ultimamente lo scrivo spesso alla fine dei miei appelli, i tempi sono ormai fin troppo maturi, non aspettiamo oltre a tagliare la gola al Leviatano.


Giorgio Bargna

giovedì 27 ottobre 2011

Italia-Svizzera: l’ABC del Federalismo

Prendo liberamente spunto da un testo definito dall'Associazione per la Riforma Federale l’“ABC del Federalismo”, per mettere su carta (ancora una volta) il mio pensiero federalista.

Le pantomime federaliste in questo paese non cessano mai di esistere, ivi compresa la legge delega che regola i rapporti tra stato ed enti locali. Il Federalismo parte, invece, da un concetto chiaro ed inalienabile: il potere amministrativo è competenza del governo locale e quello decisionale è dei suoi cittadini. Un sogno ancora lontano in una nazione laddove un articolo della Costituzione è un raro esempio di autonomia locale: Roma decide come, quando e quanto gli Enti Locali si possono autogovernare, e in ogni momento Roma può cambiare idea.

Deve risultare chiaro un concetto basilare: il potere fluisce dai Governi Locali alla Federazione, non certo viceversa. Tra i Federalisti esistono molte correnti di pensiero, ma che si tratti di Municipi, Aree Territoriali Omogenee o Regioni il concetto base è uno solo: il Soggetto Locale deve avere la più ampia libertà di formare entità federate in grado di autogovernarsi.

Indiscutibile punto di partenza è il concetto che è lo Stato ad essere servitore del Cittadino e non viceversa, in tal senso mi piace spesso citare una frase di De Gasperi: “Si parla sempre di diritti dello Stato come fossero sovrani e superiori a qualunque altro diritto mentre la verità è che prima viene l’uomo e poi lo Stato”.

Grazie al Federalismo gli Autogoverni Locali (quindi Cittadini ed Istituzioni) sono in grado di non doversi inginocchiare (prassi nazionale attuale acquisita e consolidata) in attesa di una questua calata dall’alto. Secondo i principi federalisti, infatti, il Tesoro maturato da imposte e tasse non sono proprietà dello Stato Centrale (punto cardine del Centralismo) ma degli enti territoriali che ne trasferiscono una parte allo Stato per assicurare i suoi i servizi: esercito, presidenza della Repubblica federale, Parlamento, Corte Costituzionale, polizia federale, relazioni con l’estero, e i pochissimi altri compiti di coordinamento della Federazione.

Il Filtro Fiscale, di cui discusso negli ultimi paragrafi, consente ai cittadini di avere molta più consapevolezza sul lavoro svolto da chi li governa, il che li rende più rispettati e tutelati, con correttivi di Democrazia Diretta e Partecipativa; poi, i cittadini possono anche essere, pur con dei limiti, anche Sovrani attivi e decisivi. Sicuramente il trattenimento alla fonte dei gettiti fiscali consente ai Contribuenti di essere molto più consapevoli dell’utilizzo fatto del loro denaro.

Altro pregio essenziale del Federalismo è l’abbattimento del monopolio dello Stato sui servizi sociali, quali possono essere il sevizio scolastico, quello sanitario o il sistema pensionistico, il che permette senza dubbio un servizio di pregio ad un costo infinitamente più basso; questo non accade certo per un colpo di bacchetta magica, ma grazie al principio della concorrenza, immaginate, magari addirittura, aree in grado di produrre un servizio pensionistico concorrenziale che vendono questo servizio ad altre zone dello Stato.

Questo principio competitivo è la base di una vera riforma federale, un involucro di principi cardine fissati dallo Stato Federale, seguito dai Territori che gestiscono l’operatività dei compiti dovuti alle istituzioni.

Come dicevamo qualche paragrafo sopra, gli Autogoverni Locali cedono una parte minima della propria tassazione alle finanze centrali, le quali con questa quota si pagano i pochi essenziali servizi forniti ai cittadini e garantiscono un fondo perequativo in aiuto, e mai in assistenza perenne alle Aree in difficoltà, i calcoli dovranno essere sempre effettuati sulla base del “potere d’acquisto” ed aggiustati con le stime dell’ evasione fiscale e contributiva. Le quote erariali rimaste sul territorio, oltre che ad essere stabilite in quantità, saranno gestite dagli Autogoverni che decideranno come e dove spenderle, se spenderle. Nulla vieterà, vista la vicinanza tra Istituzioni e privati, che questi ultimi vengano coinvolti nell’esercizio delle funzioni istituzionali; il tutto assoggettato, ovviamente alla trasparenza e all’accountability, termine non traducibile in italiano, perché da noi mancano completamente la cultura della “resa di conto” ed il senso civico, se non la civiltà vera e propria. Cito, su questo principio una frase esaustiva, tratta dall’ABC del Federalismo: "La trasparenza dovrà essere uno dei principi cardini della Costituzione Federale, al punto che questo è uno dei pochissimi punti per i quali non si può dire che ogni ente federato si organizza come vuole. La trasparenza, anche contabile, ed il suo controllo da parte di professionisti indipendenti, dovrà essere un vero e proprio vincolo, un obbligo assoluto per tutti gli enti federati."

Alcuni leggendo queste parole potrebbe pensare che come Jules Verne stia scrivendo di fantascienza, invece il 90% di quanto scritto è vivibile quotidianamente a 22 km da casa mia, nella Confederazione Elvetica. Geograficamente parlando la Svizzera ha una densità di circa il doppio della Lombardia ed una cittadinanza più o meno eguale, col 22% di stranieri presenti sul territorio. Quest’ultimo dato, spacciato in Italia come rilevante, per le cause di delinquenza comune, in Svizzera non ha la stessa illustrazione: nella Confederazione si vive nella norma, senza grossi problemi tra l’altro d'integrazione (specie negli ultimi anni, va detto che una naturale xenofobia dilagò anche in terra elvetica anni fa) e con un controllo della sicurezza delegato agli autogoverni locali.

La popolazione elvetica è da considerare sufficientemente priva di problemi economici, occupazionali, previdenziali e istruttivi; il che non dipende certo dal DNA (ripeto che l’aria del Ticino si respira dalle mie parti), nemmeno dalla civiltà evidentemente, ma dalla migliore organizzazione istituzionale e materiale… noi viviamo di una cultura centralista, fatta di lontananza dal cittadino. Là, vige inossidabile da secoli il Federalismo. Date un occhiata alla Costituzione Elvetica ed al modo in cui viene interpretata e capirete il tutto; noi in queste settimane ci stiamo sforzando di pubblicizzare la nostra italianità come forza storica ed unitaria, ma non sappiamo nemmeno cosa successe quel 17 marzo tanto famoso, loro invece, ad esempio sono quanto descritto, qui sotto, dalla Associazione per la Riforma Federale:

“In quel fortunato paese, ogni singolo Cantone ha competenze irrevocabili perfino nel campo della giustizia e in quello fiscale. Eppure ogni 100 metri sventola una bandiera rossocrociata. Dunque, il federalismo non divide, come dicono i signori della Casta preoccupati solo di non modificare la mappa del potere e di tutelare i loro privilegi.”

lunedì 12 settembre 2011

Pensare

Può sembrare un idiozia, eppure oggi, per la stragrande maggioranza dei cervelli pensare, soprattutto se fatto criticamente ed in autonomia, pesa … travalicare uno stereotipo diventa più difficile che attraversare La Manica a nuoto.

Invero ne ho già scritto più volte di questo argomento, ma ritornarci di tanto in tanto non duole, ricordare che i padroni del vapore non ci abituano e non ci aiutano a sviluppare il pensiero critico, che anzi ne hanno terrore, non nuoce.

Non dobbiamo però rischiare di incorrere nell’errore di valutare il significato dell’azione di pensare, ragionare non deve essere semplicemente il conoscere un concetto, ragionarci e poi eventualmente se piace, adattarsi; una volta afferrato il concetto, condiviso o non condiviso che sia, dobbiamo essere in grado di elaborarlo, plasmarlo, modificarlo o semplicemente correggerlo, anche solo un pochino, in funzione delle esigenze dell’attimo vissuto. Può sembrare un ossimoro che chi parla spesso e volentieri, sponsorizzandoli, di tradizioni ed esperienze dica questo, eppure deve essere così, il mondo, comunque, ogni giorno, scrive una nuova pagina e da ciò che ci viene tramandato dobbiamo trarre anche le eventuali, obbligatorie, necessità di mutamento.

Questa però è pratica che può sembrare veramente difficile, applicabile ad una sola parte delle menti … ma il pensiero critico, secondo me, magari a diversi livelli di capacità, è alla portata di tutti.

Vanno, da parte di ognuno di noi, messe in discussione le banalità ed i luoghi  comuni, i miti della società globale; vanno elaborati nuovi modelli di vita assolutamente non basati sulla crescita incondizionata del PIL e sul consumismo più sfrenato.

Pensare, sosteneva Hegel, significa soprattutto “negare ciò che ci sta immediatamente dinanzi”, dico io “liberarsene se possibile e rientrarci solo se ne riconosciamo un merito”.

La scuola dovrebbe essere la palestra del pensiero, ma già altre volte ne abbiamo scritto è purtroppo asservita, da essa viene invece forgiato, in serie, ormai solo un uomo spento, potremmo dire assuefatto ed acritico (mi si passi il termine), dalla mente piena di stereotipi e slogan, un uomo che non si spinge a vedere oltre sugli argomenti di cui la nostra mente è già stata farcita.

Non solo la scuola però è assoggettata, anche i media lo sono e anche gli intellettuali ormai, logica conseguenza di quanto scritto, scemano … temo dovremo arraggiarci autodidatticamente, sudarci lo sforzo di essere autonomi, situazione difficile da raggiungere. ma che ripaga con un profumo di soddisfazione che non ha pari.

Giorgio Bargna

sabato 12 febbraio 2011

Io non festeggio i 150 anni

Voglio partire con una precisazione personale (a scanso dei soliti equivoci che accompagnano la discussione di questi temi) e con la citazione di una frase dalla paternità importante.
La precisazione: sono figlio di padre canturino e di madre foggiana, lavoro, colloquio, scherzo e ceno senza problemi con siciliani, calabresi, romeni, albanesi e africani.
La citazione è di Carlo Cattaneo: “La vera scienza della società deve fondare quella sola unità che è compatibile con la conservazione delle distinzioni”
Sono sincero, ci ho provato negli anni a sentirmi italiano, ma proprio non ci riesco; accetto mio malgrado questo status giuridico perché qui sono nato e qui ho le mie radici, ma le mie radici non le considero italiane.
La citazione di Cattaneo, fossimo in una nazione federata, mi concederebbero di sentirmi italiano esattamente come un italiano può sentirsi europeo.
Per quello che è il mio pensiero mi va già un po’ stretto considerarmi Insubre, io già la vedo su posizioni che richiamino alle “Aree Territoriali Omogenee”, quale può essere la mia Brianza.
Non posso però negare che un popolo venga considerato tale se non su alcune specifiche basi: la lingua, la tradizione, la cultura….la terra che parte dal Novarese ed arriva ai confini col Trentino (l’Insubria appunto) è la sintesi di queste specifiche basi.
Non scendo ad analizzare la storia risorgimentale, ognuno potrebbe portare acqua al proprio mulino acquisendo fonti ovunque…proprio volendo potrei andare ad analizzare i fenomeni del secondo dopoguerra…da quei giorni siamo eterodiretti dalla finanza internazionale e ospitiamo i soldati, le basi, le flotte, gli aerei e le bombe nucleari dei nostri padroni…l’Europa degli usurai ha finito di smantellare quel poco di dignitoso che avevamo ed ora si prepara a mandarci in bancarotta alla stregua di greci, irlandesi, iberici.

Ma torniamo al punto…nella storia la mia terra è stata invasa da molti tiranni; tedeschi, austriaci, francesi…ognuno ha lasciato la propria impronta, prima di essere scacciato, nessuno però aveva preteso che noi fossimo francesi o alemanni. Invece il Principe francese che volle conquistare l’Italia e chi lo ha seguito al governo di questa nazione hanno preteso di nominarci italiani…ma da dove nasce questa pretesa? Non esiste il popolo italiano, non esistono i polentoni ed i terroni, esistono semmai popoli locali che non sono riusciti a liberarsi dell’ultimo, il più potente (evidentemente) invasore. Un invasore furbo, che ha mischiato le carte in tavola, ha fatto migrare da una regione all’altra popolazioni cercando di annacquare il localismo.

Non ne faccio neppure una questione politica…un popolo nasce dove la natura vuole, si accresce dei frutti e dei prodotti che la sua terra gli concede, delle capacità concettuali del proprio popolo. Dalle mie parti si sarebbe andati avanti felicemente di agricoltura ed artigianato, delle fabbriche ne avremmo fatto a meno, come a meno ne avremmo fatto delle città che ne sono conseguite…lo stesso, sono certo, che sarebbe valso per tutti i popoli assoggettati, alcuni dei quali si sono visti, tra l’altro, rapinare delle capacità industriali che avevano già un centinaio di anni fa, ma che avevano un difetto…distavano troppo dagli snodi commerciali verso l’Europa.

No, sono convinto di non poter essere italiano e spero un giorno di non esserlo più, nemmeno giuridicamente…quel giorno, sulle basi del pensiero di Cattaneo, spero però di potermi federare (per scelta e non per imposizione) coi popoli confinanti.


Giorgio Bargna