Ho scritto
spesso di localismo, sostenibilità, comunità e tradizioni.
Sono e rimarrò sempre convinto di un idea: le piccole realtà
sono di fatto (scusate il gioco di parole) le più grandi depositarie di
rapporti sociali e civici robusti. Chiunque si adoperi nella loro
consolidazione e proposizione, opera, senza dubbio, a favore della
ricostruzione sociale e politica di un Paese.
Non bisogna comunque illudersi che le nostre “piccole
patrie”siano immuni dalla disgregazione civica, sociale e (soprattutto) morale,
questo va subito chiarito.
Abbiamo davanti un compito immane, ridisegnare da capo il
senso di città, di comunità, di civicità; valori che negli anni hanno visto
deviare la propria parabola in modo estremamente significativo.
Sono fermamente convinto che lo Stato (federale senza ombra
di dubbio) che dobbiamo (ri)fondare ci chieda principalmente, per
cementificarne le proprie fondamenta, di risviluppare il senso di città e di
comunità, basandosi anche, e soprattutto, sulla specifica dimensione storica e sulla
proiezione universale imprescindibile.
Le nostre comunità locali sono passate attraverso parecchi
periodici storici, spesso è capitato che abbiano subito qualche mutazione, a volte
vacillando, raramente però sono state stravolte. Laddove, la storia non è
riuscita, oggi a colpire è uno status socioeconomico moderno e quasi inedito:
il capitalismo. L’individualismo che ne consegue, il consumo ad ogni costo,
hanno minato “modi di essere” di valenza millenaria.
Ritengo che ogni Cittadino
con la C maiuscola abbia il dovere sociale di operarsi a riedificare, al
massimo del valore, il senso del radicamento. A questo livello sociale ed
economico avariato va invertita la rotta (tracciata,purtroppo, sciaguratamente,
da un’urbanizzazione che ha creato mostruosi ammassamenti) dirottando verso il
ritorno all’agricoltura, all’artigianato, alla piccola industria, alle fonti
energetiche diversificate e rapportate alle risorse del territorio,
all’autoproduzione e all’autoconsumo.
A livello politico abbiamo la necessità di recuperare quell’
universalismo smembrato dagli Stati Nazionali, un universalismo che non potrà
certamente essere quello della globalizzazione, né un riferimento all’attuale
UE, bensì una nuova “Europa dei Popoli” , riferimento per noi irrinunciabile, che
potrà nascere solo da un processo rivoluzionario di mobilitazione di passioni
popolari che deve trasformarsi in un’ ideologia, in quella spinta che cambia e
salva il mondo, tanto economicamente che
ambientalmente, basandosi si sulla tradizione, ma anche su una nuova comunità
rigenerata che sia in grado di attingere
dagli errori recenti.
Questo obbiettivo richiede
senza dubbio alcuno un salto di qualità culturale non indifferente, teso verso
un piano completamente diverso, ordinato da leggi e regole opposte a quelle
imposte dal sistema economico-politico attuale.
Badate che stiamo
parlando di nozioni che non sono assolutamente sconosciute, anzi, ma che
vengono eluse, per pura convenienza, dallo “status quo”.
Ai padroni
del vapore, credo sia chiaro, conviene cercare di riproporre quelle politiche
originarie degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, esattamente le cause della
nascita quelle che hanno fatto nascere questa crisi, quel tipo di politiche che ignorano palesemente le leggi della fisica; si parla di una crisi
non è ciclica, ma di sistema. Non è inseguendo
vecchie o nuove dottrine del sistema
che si risolve il dunque, ma uscendone e riscrivendo da zero (o giù di
li) il percorso.
E’ comunque scattato,
a mio vedere, opinabile se volete, un meccanismo di autodifesa negli ultimi
anni, un netto radicamento della popolazione sul territorio, praticamente un
“effetto non desiderato” dalla nomenclatura europea, la quale sperava che con
la crisi si potesse spazzare via ogni residuo di identità e si ritrova invece
con tanti popoli che rivendicano se non l’autodeterminazione quantomeno
l’autogoverno.
Potrebbe
essere questo lo scenario futuro europeo: una serie di tanti Stati, piccoli sì,
ma più radicati con i popoli e quindi sempre più espressione di una forte
identità, da cui poter far ripartire il corso democratico interrotto con
l’avvento della dittatura della finanza internazionale.
Si delinea su alcuni fronti una volontà
popolare orientata verso una maggiore identificazione con la propria terra, in
risposta alle mire di un sistema senza Stati teorizzato e portato avanti dagli
architetti del nuovo ordine mondiale.
Anche se qualche globalizzatore nega
questa possibilità esistono innegabili le radici "vere" della nostra
identità, il legame con la madre terra.
La cultura, la storia, la lingua,
identificano (legando l’uomo al territorio che calca o in cui è nato) ogni
tentativo posto in essere a negare l’esistenza di tali elementi e chi nega
questo scoprirà nel tempo una reazione crescente, del tutto opposta, da parte
dell’individuo stesso.
Non
mancheranno nel futuro nuove occasioni per discutere ed approfondire ancora
temi basati sui localismo, sostenibilità, comunità e tradizioni.
Giorgio
Bargna