venerdì 10 gennaio 2014

Piccole realtà

Ho scritto spesso di localismo, sostenibilità, comunità e tradizioni.
Sono e rimarrò sempre convinto di un idea: le piccole realtà sono di fatto (scusate il gioco di parole) le più grandi depositarie di rapporti sociali e civici robusti. Chiunque si adoperi nella loro consolidazione e proposizione, opera, senza dubbio, a favore della ricostruzione sociale e politica di un Paese.

Non bisogna comunque illudersi che le nostre “piccole patrie”siano immuni dalla disgregazione civica, sociale e (soprattutto) morale, questo va subito chiarito.
Abbiamo davanti un compito immane, ridisegnare da capo il senso di città, di comunità, di civicità; valori che negli anni hanno visto deviare la propria parabola in modo estremamente significativo.

Sono fermamente convinto che lo Stato (federale senza ombra di dubbio) che dobbiamo (ri)fondare ci chieda principalmente, per cementificarne le proprie fondamenta, di risviluppare il senso di città e di comunità, basandosi anche, e soprattutto, sulla specifica dimensione storica e sulla proiezione universale imprescindibile.

Le nostre comunità locali sono passate attraverso parecchi periodici storici, spesso è capitato che abbiano subito qualche mutazione, a volte vacillando, raramente però sono state stravolte. Laddove, la storia non è riuscita, oggi a colpire è uno status socioeconomico moderno e quasi inedito: il capitalismo. L’individualismo che ne consegue, il consumo ad ogni costo, hanno minato “modi di essere” di valenza millenaria.

Ritengo che ogni Cittadino  con la C maiuscola abbia il dovere sociale di operarsi a riedificare, al massimo del valore, il senso del radicamento. A questo livello sociale ed economico avariato va invertita la rotta (tracciata,purtroppo, sciaguratamente, da un’urbanizzazione che ha creato mostruosi ammassamenti) dirottando verso il ritorno all’agricoltura, all’artigianato, alla piccola industria, alle fonti energetiche diversificate e rapportate alle risorse del territorio, all’autoproduzione e all’autoconsumo.

A livello politico abbiamo la necessità di recuperare quell’ universalismo smembrato dagli Stati Nazionali, un universalismo che non potrà certamente essere quello della globalizzazione, né un riferimento all’attuale UE, bensì una nuova “Europa dei Popoli” , riferimento per noi irrinunciabile, che potrà nascere solo da un processo rivoluzionario di mobilitazione di passioni popolari che deve trasformarsi in un’ ideologia, in quella spinta che cambia e salva il mondo,  tanto economicamente che ambientalmente, basandosi si sulla tradizione, ma anche su una nuova comunità rigenerata che sia in grado di  attingere dagli errori recenti.

Questo obbiettivo richiede senza dubbio alcuno un salto di qualità culturale non indifferente, teso verso un piano completamente diverso, ordinato da leggi e regole opposte a quelle imposte dal sistema economico-politico attuale.

Badate che stiamo parlando di nozioni che non sono assolutamente sconosciute, anzi, ma che vengono eluse, per pura convenienza, dallo “status quo”.
Ai padroni del vapore, credo sia chiaro, conviene cercare di riproporre quelle politiche originarie degli anni ’20 e ’30 del secolo scorso, esattamente le cause della nascita quelle che hanno fatto nascere questa crisi, quel tipo di politiche che ignorano palesemente  le leggi della fisica; si parla di una crisi non è ciclica, ma di sistema. Non è inseguendo  vecchie o nuove dottrine del sistema  che si risolve il dunque, ma uscendone e riscrivendo da zero (o giù di li) il percorso.

E’ comunque scattato, a mio vedere, opinabile se volete, un meccanismo di autodifesa negli ultimi anni, un netto radicamento della popolazione sul territorio, praticamente un “effetto non desiderato” dalla nomenclatura europea, la quale sperava che con la crisi si potesse spazzare via ogni residuo di identità e si ritrova invece con tanti popoli che rivendicano se non l’autodeterminazione quantomeno l’autogoverno.
Potrebbe essere questo lo scenario futuro europeo: una serie di tanti Stati, piccoli sì, ma più radicati con i popoli e quindi sempre più espressione di una forte identità, da cui poter far ripartire il corso democratico interrotto con l’avvento della dittatura della finanza internazionale.

Si delinea su alcuni fronti una volontà popolare orientata verso una maggiore identificazione con la propria terra, in risposta alle mire di un sistema senza Stati teorizzato e portato avanti dagli architetti del nuovo ordine mondiale.
Anche se qualche globalizzatore nega questa possibilità esistono innegabili le radici "vere" della nostra identità, il legame con la madre terra.
La cultura, la storia, la lingua, identificano (legando l’uomo al territorio che calca o in cui è nato) ogni tentativo posto in essere a negare l’esistenza di tali elementi e chi nega questo scoprirà nel tempo una reazione crescente, del tutto opposta, da parte dell’individuo stesso.

Non mancheranno nel futuro nuove occasioni per discutere ed approfondire ancora temi basati sui localismo, sostenibilità, comunità e tradizioni.

Giorgio Bargna

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