Porto
sulle spalle ormai un certo numero di anni; anche se non poi così tanti sono
sufficienti a ricordare un mondo molto diverso da quello odierno sotto molti
aspetti.
Oggi
volevo scrivere di un aspetto che ormai ha perso per strada praticamente quasi tutti
i suoi pezzi: il senso di appartenenza.
Nei
secoli, ma anche solo quando io ero poco più di un ragazzino, si era fieri di
appartenere ad un qualcosa, qualcosa di comune, di rassicurante, di protettivo,
di rappresentativo.
C’era
la possibilità di appartenere ad un nucleo famigliare, nucleo inteso come “clan”,
un tipo di famiglia a volte magari troppo patriarcale ma dove crescevi e poi
vivevi sicuro di avere sempre un aiuto, un appoggio, vivevi sicuro di avere un
cognome di cui andare fiero.
Ho
avuto il tempo di sentirmi un pezzo vivente del quartiere dove sono nato ed
ancora risiedo, di viverne gli usi ed i costumi, di tirare cazzotti in risse
con la frazione rivale, di girare bambino tra i negozi dove eri considerato,
prima che un cliente, un amico.
Ho
avuto il tempo di sentirmi parte di ideologie, partitiche o religiose che
potessero essere, l’onore di sentirmi legnamèe o semplicemente uno della classe
III sezione a oppure un coscritto della mia leva.
Ho
purtroppo visto nel mio scorrere degli anni una accelerazione violenta di
quanto viene definito col termine modernizzazione; il capitalismo sfrenato ed
illimitato, che ne è l’aspetto più forte ed evidente, dissolve le appartenenze,
le annienta, riduce l’essere umano ad essere solo se stesso, la propria immagine,
per esasperare i toni, gli esempi, dico che ci sono padri che non sanno neppure
come i propri figli hanno passato, non la sera o la giornata ma, la settimana.
Non
a caso proprio la famiglia negli ultimi decenni è stata attaccata e dilaniata e
proprio partendo dalla perdita del nucleo centrale ogni altra essenza viene
minata, è sempre più raro ormai assistere anche agli sfottò di tifosi di calcio
oppure alle discussioni di appartenenza politica davanti ad uno sport che non è
più fatto da giocatori che erano bandiere ma da mercenari o davanti a partiti
che sono ormai solo aggregazioni elettorali provvisorie.
Hanno
smembrato ogni certezza, ogni gruppo, ogni valore facendoci credere di essere
liberi; ma liberi di fare cosa? Di poter criticare i politicanti senza andare
al “gabbio”? Liberi di scegliere tra mille bei vestiti, decine di belle auto o
tra tanti appartamenti dove andare a rintanarsi senza neppure sapere che volto
abbia il condomino dirimpettaio?
Mi
dispiace, l’unica libertà che abbiamo è quella di essere produttori e consumatori, privati di vincoli morali e
radici territoriali; liberi, si fa per dire, nell’espressione della
parola, ma schiavi di ritmi lavorativi “bizzarri” ed alterni e del consumo
perpetuo.
Davanti
a questa mancanza di solide basi, di gruppi di appartenenza, di valori a cui
votarsi viene difficile anche organizzare una lotta di liberazione dallo
strapotere del sistema, molti gruppi “alternativi” nascono e muoiono nell’arco
di una stagione, ma noi sappiamo che nella nostra indole umana, nel nostro DNA,
abbiamo presente il gene dell’appartenenza ed è proprio da qui, dalla storia,
dalla nostra famiglia, dalle nostre tradizioni, dai nostri valori, dalla nostra
cultura che dobbiamo partire con la ricostruzione del mondo a cui apparteniamo.
Giorgio Bargna