domenica 19 ottobre 2008

Quotiamo in borsa il provincialismo

Ci sono stati tempi, neppure troppo lontani, in cui i “bauscia” metropolitani guardavano, dall'alto al basso, alla provincia, arricciando quei bei nasini, pensando tra sè e sé, esternandolo nei momenti di “bausciamento elevato”:"Ma che arretratezza questi rozzi di provincia, chiusi alle novità, gente che pensa solo al lavoro e ne mette i frutti sotto il materasso, anzichè lanciarsi all'inseguimento del mondo; ascoltano ancora i loro vecchi bacucchi e quei sacerdoti che dai loro pulpiti lanciano ancora messaggi ortodossamente conservatori!"
Ci “accusavano” di limitarci a produrre, di non essere in grado di reinvestire creativamente in guadagni tutto sommato facili...insomma arretrati al punto che non capivamo come, questa formula globalizzatrice e speculativa del guadagno facile e del reinvestimento in novità tecnologiche e nuove formule lavorative, avrebbe fatto l'interesse individuale e collettivo, con ricaduta d'ulteriore beneficio per i singoli.
Oggi, che il “trend economico” vola basso, accusano il colpo, iniziano a capire che qualcosa è stato sbagliato e con le tasche svuotate dai “broker di borsa” cominciano a pensare che è giunta l'ora di sottrarre i soldi alle banche e di infilarle sotto i materassi domestici, come stanno facendo i loro colleghi “bauscia” d'oltremanica. E son lì, ancora una volta, ad aspettare che i “provincialotti” salgano sul loro treno...ma non credo andrà come si aspettano loro...neppure stavolta. La provincia lascerà il proprio capitale li dove si trova, non perchè abbia una fiducia incondizionata nelle banche e nelle istituzioni, ma perchè i soldi hanno lì la loro casa! Li lascerà lì, perchè la provincia crede in se stessa, nelle scelte per le quali è stata irrisa, in quel capitale enorme che sono la tradizione unita alla saggezza (di chi vive le cose in prima persona) ed al buonsenso.
Per noi, da sempre abituati all'impegno, questo crollo annunciato è un pericolo parziale; le nostre forze principali, l'orgoglio per le nostre tradizioni e la nostra esperienza di vita, la forza di essere ancora un po' comunità (in parte ci siamo persi anche noi), l'essere ancora basati il più possibile sull'artigianato e sulle piccole imprese e il nostro saper vivere ancora un po' il quotidiano ci aiuteranno ad uscire ancora una volta in piedi, alla faccia di chi considerava queste nostre proprietà “arretratezza”. Oggi quel che era considerato il fanalino di coda, seppur con fatica, resiste ancora alla crisi, lottando con le unghie ed i denti; si rilancia e, sicuramente, si trova in testa al gruppo, non in coda. Cari “metropolitani” superavveduti, la prossima volta che deciderete di acquistare titoli, in banca, lasciate perdere quelli delle grandi aziende (e i buoni fruttiferi stranieri ed italiani), investite invece in un vecchio titolo, sul quale la borsa non quota più da anni, la provincia ed i suoi abitanti!
Il titolo paga poco nell'immediato, ma nel tempo rende alla grande.
Come da sempre scrivo su queste pagine, la cultura delle piccole e medie comunità è un valore inestimabile ed impareggiabile; nei secoli nessuno è riuscito ad egualiarla... e mai ci riuscirà!
Giorgio Bargna.

giovedì 18 settembre 2008

Troppe scatole

Propongo la lettura di questo articolo, troverete cifre interessanti, buona lettura, Giorgio.

Da “La Provincia di Como” edizione de 27/08/2008

Troppe scatole: la spesa costa il 30% in più
Penalizzati single e famiglie poco numerose: per loro un conto più salato fino al 60 %

ROMA Le confezioni incidono fino al 30% sul prezzo di vendita degli alimenti e pesano sulle tasche degli italiani spesso più del prodotto agricolo in esse contenuto. Senza contare i costi indiretti dello smaltimento che vengono poi pagati con la tassa rifiuti.
I single e le famiglie sempre meno numerose sono i soggetti più penalizzati da questa situazione, con i primi che arrivano a spendere per gli acquisti alimentari il 60% in più rispetto alla media delle famiglie italiane.
È la Coldiretti a evidenziare questo ulteriore aspetto della spirale dei prezzi, al quale la grande distribuzione sta cominciando a porre rimedio con la diffusione delle apparecchiature che distribuiscono alcuni prodotti sfusi.

Alimentari i più cari
Nel settore alimentare, spesso il costo dell'imballaggio supera quello del prodotto agricolo in esso contenuto, come nel caso dei fagioli in scatola, dove incide per il 26% sul prezzo di vendita, o per la passata in bottiglia da 700 grammi (25%), per il succo di frutta in brick (20%) e per il latte in bottiglia di plastica (oltre il 10%).
Per contro, da questo punto di vista le confezioni più convenienti sono quelle che contengono più prodotto, ma proprio queste sono quelle meno adatte a single e famiglie piccole, che rischiano di dover gettare nella spazzatura ciò che è rimasto in frigorifero di una confezione non consumata completamente. Il problema è ormai avvertito e si diffondono le iniziative per favorire il consumo di prodotti che non producono imballaggi. In primo luogo l acquisto diretto nelle aziende agricole e nei distributori di vino o di latte sfusi, che consentono di risparmiare fino al 40% rispetto al normale prezzo di vendita del latte fresco. Sono ormai ben 57.530 le stalle, le cantine, e i casali, segnala la Coldiretti, dove è possibile acquistare direttamente, e ormai decine in quasi tutte le regioni i mercati degli agricoltori che consentono di risparmiare sulle confezioni.

Consumi in picchiata
A soffrire maggiormente gli effetti della tradizionale modalità di vendita tramite imballaggio, sono appunto i nuovi attori della geografia sociale italiana: single e famiglie sempre meno numerose. L'Istat ha diffuso nei mesi scorsi una statistica dalla quale emerge che le famiglie con un singolo componente spendono in media 299 euro al mese per l'alimentazione contro i 187 euro mensili di ogni singola persona di una famiglia-tipo italiana, formata in media da 2,5 componenti.
Secondo l' Istituto Centrale di Statistica le famiglie italiane con un singolo componente sono 5.977 mila, oltre un quarto del totale, il 26,1%. E la Coldiretti sottolinea che proprio dalle famiglie monocomponente deriva la crescita continua delle vendite di mini porzioni e piatti pronti, a volte anche in controtendenza rispetto all' andamento generale italiano. Le verdure in sacchetto, ad esempio, hanno fatto segnare un aumento del 4,2% nel 2007, mentre il consumo di verdure in generale è sceso del 2,6%.



venerdì 8 agosto 2008

UNDP & Partecipazione

Torniamo a parlare di Democrazia Diretta e Partecipata e Decentramento con dei ragionamentimtratti dal Programma delle Nazione Unite per lo Sviluppo (UNDP), massima autorità internazionale d’analisi dei meccanismi dello sviluppo umano, alla cui ricerca facciamo perciò riferimento per le nostre convinzioni politiche.

L’UNDP sottolinea innanzitutto come il decentramento favorisca sempre la partecipazione politica popolare e quest’ultima produce sempre effetti positivi sullo sviluppo in quanto esista un rapporto strettissimo fra democrazia e sviluppo umano. Più un paese è democratico, sostiene l’UNDP, maggiore è la probabilità che quel paese si sviluppi e, d’altro canto, l’effettività della democrazia dipende direttamente dal decentramento del potere.
La ricetta dell’UNDP per lo sviluppo è dunque semplice: decentrare per partecipare; partecipare per aumentare il benessere. Non a caso la nota istituzione internazionale ha dedicato numerosissimi studi (a partire dal suo 4° rapporto annuale, del 1993) proprio al tema del decentramento e della partecipazione popolare all’attività politica, sottolineando continuamente i benefici effetti del decentramento e della partecipazione popolare sullo sviluppo umano.
Naturalmente, sottolinea l’UNDP, “se il decentramento non prende le forme della riduzione dei livelli di concentrazione e della delega, il governo manterrà il controllo effettivo ed è improbabile che ne risulti un aumento della partecipazione politica. (…) Il potere può anche essere affidato ad istituzioni locali non democratiche che non incoraggiano la partecipazione popolare”, inoltre spesso “il potere centrale conserva un forte controllo politico” per esempio nel caso in cui il potere affidato agli enti locali viene gestito localmente da persone designate dall’alto.
In ogni caso l’UNDP sottolinea come tutti gli aspetti positivi del decentramento (che indicheremo sommariamente qui sotto) “si esprimono solo in presenza di un decentramento genuino e di strutture realmente democratiche”.
Inoltre è bene ricordare che, anche alla luce delle ricerche condotte dall’UNDP, “ un decentramento efficace è impossibile senza una vera riforma delle strutture di potere esistenti. Se il potere rimane concentrato nelle mani di un’elite (…) si corre il rischio che il decentramento dia maggiore potere all’elite piuttosto che alla gente”.
Fondamentale infine è il ruolo essenziale che nelle politiche locali possono svolgere le organizzazioni non governative.
Oltre alla partecipazione politica il decentramento tende inoltre a favorire la partecipazione economica ed “agevola l’attività imprenditoriale locale nonchè l’aumento dei livelli occupazionali in vari modi. (…) La costruzione e manutenzione di infrastrutture locali tende a dare lavoro direttamente alle imprese ed alla manodopera locali. (…) Le autorità locali sono generalmente in grado di offrire un miglior sostegno alle imprese locali fornendo un’assistenza alla gestione e delle informazioni di mercato più adeguate alle esigenze locali. Inoltre esse si trovano nella posizione migliore per identificare le necessità delle aziende.”.
La partecipazione economica “può essere incoraggiata anche mediante strategie d’investimento decentrato che promuovano industrie di piccole dimensioni e sfruttino meglio le risorse, le materie prime e le capacità dei lavoratori del luogo”.
Secondo l’UNDP il decentramento del potere è non solo una delle strade migliori per favorire la partecipazione politica ed economica ma anche per migliorare l’efficienza dei pubblici poteri in considerazione del fatto che “i politici locali, molto più soggetti al controllo popolare di quanto non lo sia il governo centrale, sono costretti a rendere maggiormente conto del loro operato alle comunità ed alle persone di cui sono al servizio”.
“Dovunque si sia avuta una qualche forma di decentramento, esso ha generalmente aumentato l’efficienza”, come naturale portato di “controlli e supervisioni più serrati” e miglior ricorso alle potenzialità locali.
Inoltre “i pubblici progetti sono assai più incisivi ed efficienti se le comunità locali a cui sono destinati avranno voce in capitolo nella loro progettazione ed esecuzione”. In fase di progettazione i programmi risultano “meglio calibrati rispetto alle esigenze della comunità, inoltre minori risultano i ritardi dovuti ai contrasti fra gli operatori del progetto ed i beneficiari”.
Tutto ciò soprattutto quando il decentramento è effettivo e profondo, ossia quando “conferisce poteri decisionali con piena autonomia al governo locale” in modo che “l’amministrazione locale disponga effettivamente delle risorse finanziarie e dell’autorità per definire ed attuare programmi e progetti per lo sviluppo del proprio territorio”.
Queste considerazioni valgono, secondo l’UNDP, non solo per i paesi in via di sviluppo ma anche per quelli industrializzati e non solo nell’ambito strettamente economico ma anche negli ambiti più impensabili.
Il decentramento contribuisce a migliorare l’efficienza sia in termini di progettazione che in termini di tempi e costi di realizzazione. E questo non vale solo per i programmi di opere pubbliche ma anche per l’attività pubblica ordinaria. Tant’è che, per fare solo un esempio, che “il coinvolgimento locale delle comunità porta ad un’apprezzabile riduzione dell’assenteismo degli insegnanti man mano che questi devono sempre più rendere conto alla comunità locale di quanto fanno”.
Inoltre “il coinvolgimento locale delle persone (impossibile nelle strutture centralizzate) si traduce spesso in una struttura più appropriata di servizi, e ciò soprattutto nel settore sanitario, (…) i vantaggi sono distribuiti più equamente fra la popolazione e gli interventi sono più rispondenti alle effettive esigenze della comunità”, in quanto “le autorità locali, essendo più vicine alla popolazione e più sensibili alle sue esigenze, distribuiscono le risorse con maggiore cognizione di causa dirigendole verso settori umani prioritari come l’istruzione e l’assistenza sanitaria, e più in generale nei settori più rilevanti per lo sviluppo umano”.
Secondo l’UNDP “un vantaggio ulteriore e duraturo del decentramento e del coinvolgimento popolare nella fornitura di servizi locali è che gestione e mantenimento risulteranno più semplici” e gli standard dei servizi miglioreranno.
Per queste ragioni l’UNDP si spinge addirittura ad auspicare che “la distruzione dei servizi sociali avvenga quasi interamente a livello locale attraverso ospedali, scuole, servizi di assistenza locali”, rammaricandosi che ciò in pratica non avvenga “né nei paesi industrializzati né in quelli in via di sviluppo”.

L' Italia segue l' Argentina sulla stessa strada


L'Italia segue l'Argentina sulla stessa strada
Un interessante articolo, un pochino datato invero, scaricato da questo indirizzo web:
http://www.valori.it/index.php?option=com_content&task=view&id=136&Itemid=0 ,
La firma stavolta arriva dall' area economica di destra, buona lettura, Giorgio.

Desmond Lachman, il 16 marzo 2006, ha firmato un articolo sul Financial Times dal titolo “L'Italia sta seguendo la stessa strada dell'Argentina verso la rovina” (Italy follows Argentina down road to ruin). L'autore è membro con Richard Perle, Paul Wolfowitz e Michael Leeden dell'American Enterprise Institute, uno dei maggiori think-tank della destra economica Usa e anche uno dei massimi sostenitori della politica di George W. Bush per quanto riguarda prima l'Iraq e ora l'Iran. Lachman è stato vicedirettore di Policy and Review Departement del Fondo Monetario Internazionale, Quando un uomo al vertice del potere internazionale come Desmond Lachman scrive un articolo, non chiarisce un punto di vista come avviene in un normale dibattito democratico, ma dà un ordine per renderlo esecutivo, capace com'è di esercitare indebite pressioni atte a provocare, se necessario, guerre economiche o veri scontri militari come in Iraq. Perché questa analogia tra la situazione economica dell'Argentina degli anni Novanta e l'Italia di oggi? Questi due Paesi “stabilizzavano” le loro economie con svalutazioni periodiche, che davano maggiore competitività alle loro merci sul mercato internazionale e agivano sull'inflazione per diluire il debito pubblico. Ma negli anni Novanta l'Argentina agganciò la sua moneta al Dollaro. Questa scelta evidenziò che la valuta Usa era troppo forte rispetto all'economia del Paese sudamericano che entrò in una crisi devastante. L'Italia ha fatto la stessa scelta agganciando l'Euro, altra moneta forte, pur avendo un'economia debole, dovuta a scelte subalterne di politica economica effettuate dai vari governi che si sono succeduti dal dopoguerra ad oggi. Dopo l'aggancio con la valuta forte, i due Paesi si sono trovati di fronte ad un percorso obbligato: introdurre dure riforme del lavoro, “flessibilità” esasperata e precarietà generalizzata, prelievo fiscale diretto o indiretto per sanare il debito contratto drenando risorse dalle tasche dei piccoli risparmiatori verso le casse dei banchieri del FMI. Un disastro che in Argentina ha provocato, tra le altre cose, l'impossibilità per i risparmiatori di accedere ai propri depositi. Una situazione talmente paradossale che ha visto gli argentini morire di fame, pur avendo i supermercati pieni di generi alimentari. L'aggancio con l'Euro da parte del nostro Paese ha prodotto una situazione singolare: l'Italia deve pagare gli interessi del suo enorme debito pubblico alla Banca Centrale Europea, agli stessi tassi imposti dal FMI per i Paesi europei più forti, che compensano questo meccanismo usuraio con produzioni competitive in quanto ad alto contenuto tecnologico. L'Italia, che è sotto di 15 punti nella competitività alla Germania, non può più giocare la carta della svalutazione della Lira e della propria produzione essendo vincolata all'Euro, ricorre a salari da fame e al taglio della spesa sociale, grazie alla sua classe politica e imprenditoriale che si attiene scrupolosamente alle imposizioni del Fondo Monetario Internazionale. Helmut Reisen analista economico dell'OCSE, nel suo rapporto “China's and India's implications for the world economy” prevede un calo del 15% dei salari e degli stipendi in Europa e un leggero innalzamento di quelli dei Paesi asiatici, con un trasferimento di risorse verso i profitti. Questa politica del FMI ha obbligato la Cina nel 2005 ad un abbattimento dei prezzi delle sue merci esportate del 25%, per compensare gli aumenti dei prezzi di petrolio e degli impianti industriali, creando nel contempo in quel Paese ulteriori problemi sociali che hanno determinato una forte migrazione verso le città e hanno visto riemergere una forte opposizione sociale, soprattutto nelle zone agricole più povere. Il FMI vuole attaccare lo Stato sociale europeo, unica alternativa politica e sociale al modello liberista e ci propone come “cura” il modello asiatico. Desmond Lachman sostiene nel suo articolo che l'Italia ha bisogno di forti riforme, come quelle introdotte in Argentina da Carlos Menem. Secondo Lachman, quindi, il nostro Carlos Menem da Arcore non ha ancora riformato a sufficienza nei cinque anni del suo governo e mette le mani avanti anche rispetto al futuro governo Prodi; in più intima ai Paesi forti dell'economia europea, Germania, Francia, Olanda, Belgio, ecc. di smettere di accollarsi i costi del nostro debito pubblico. È singolare che il monito sul debito pubblico ci arrivi dagli Stati Uniti, che sono i detentori del record mondiale del debito e che si diano indicazioni alla Banca Centrale Europea sulle scelte da fare. Con l'intervento di Lachman si formalizza, da parte dei poteri forti, la creazione di un'Europa a due velocità, come già aveva preconizzato Joachim Fels, economista della Morgan Stanley, in un'intervista dell'8 agosto 2005 alla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Fels riteneva improbabile “che l'Italia esca dal sistema monetario europeo di sua volontà. É più probabile che i Paesi che vogliono la stabilità diranno: noi introduciamo una nuova moneta forte, che chiamiamo Neuro (New Euro). E così gli italiani e gli altri che diluiscono la qualità e stabilità dell'euro saranno lasciati fuori”. La creazione di un'Europa a due velocità ha lo scopo preciso di ridimensionare il peso politico del nostro continente, rispetto al blocco angloamericano. I paladini della concorrenza sono i primi a combatterla. Dopo la svendita degli anni Novanta delle industrie di Stato, l'attrattiva dell'Italia è comunque rappresentata dal suo risparmio: 140 miliardi di euro, che devono passare di mano e la lotta sul controllo delle banche ne è la parte visibile. Questa capacità di risparmio e una corretta politica fiscale potrebbero essere il volano del rilancio della ricerca, dell'industrializzazione su basi scientifiche avanzate, che non scarica solo sui più deboli i costi di questa modernizzazione. Ma questo richiede una grande autonomia, nei confronti di tutti. Siamo alla politica dell'assurdo: il nostro Paese, fedele esecutore delle direttive del FMI, viene criticato dal medesimo al solo scopo di ottenere la continuazione di quella nefasta politica anche con i futuri governi. Da questi fatti si evidenzia una continua ingerenza dei banchieri e delle loro strutture e una debolezza di fondo delle istituzioni e dei politici nei vari Paesi europei. In sostanza i politici sono incapaci di contrapporre una loro autonoma politica in alternativa a quella del Fondo Monetario Internazionale. E' come se sul nostro territorio ci fosse una pletora di uomini politici, di forze economiche e intellettuali che operino contro l'unità e i valori europei. Nessuno mette nel proprio programma politico scelte utili ad arginare questa disfunzione del sistema democratico, anzi ogni governo nazionale, tramite la propria Banca Centrale, si fa docile strumento di scelte che come consenguenza produrranno solo tensioni sociali sul nostro territorio, vedi il caso italiano e francese, a vantaggio di chi vuole continuare in modo imperituro a governare le sorti del mondo senza essere mai sottoposto ad un democratico e salutare voto. In sostanza i signori del FMI giocano con carte truccate: si comportano come i Re di Lidia del VI secolo a.c. ideatori della moneta, che veniva coniata in elettro, una lega oro-argento che doveva contenere un 70 per cento d'oro: ma ad un attento esame si è riscontrato che in quelle monete di oro ce n'era solo il 53 per cento.
http://www.valori.it/

L' Italia è una colonia


Girando nella rete cercando accostamenti tra la situazione economica italiana e quella della crisi argentina di qualche anno fa, sono incappato in questo testo; condivido non tutto quello che vi è scritto (intuibilmente è di parte!), ma sicuramente ci sono buoni spunti di riflessione. Buona lettura ,Giorgio.
http://italia.pravda.ru/italia/5412-8/
L'Italia e' una colonia?
15.04.2007 Source: Pravda.ru
I mass media propagandano l'immagine dell'Italia come di un paese libero e democratico, in cui la popolazione gode di potere politico ed economico. Ma e' davvero cosi'?
Il sospetto che l'élite egemone economico-finanziaria si sia appropriata del nostro paese sotto tutti i punti di vista e che lo stia guidando verso il baratro, è venuto persino al Financial Times, che in un articolo del 16 marzo 2006 scriveva che “L'Italia sta seguendo la stessa strada dell'Argentina verso la rovina”. L'autore dell'articolo, Richard Perle, è un esponente dell'estrema destra americana e un accanito sostenitore di George W. Bush, quindi è difficile credere che voglia mettere in cattiva luce l'élite dominante.
Il paragone fra l'Italia e l'Argentina nasce da considerazioni finanziarie, precisamente dalla scelta italiana di assumere l'euro come propria valuta, pur essendo il paese condannato ad avere un'economia debole, a causa delle scelte di politica economica effettuate dai governi, che tendono ad avvantaggiare il capitale straniero piuttosto che lo sviluppo del paese, come accade in una colonia. Anche l'Argentina, agganciando la propria valuta al dollaro, si trovò a fare i conti con una moneta forte, mentre la sua economia era in mani straniere. Ciò che accadde all'Argentina è noto.
Le aziende italiane sono state in gran parte rilevate dalle grandi corporation anglo-americane. Oggi l'Italia è il paese europeo meno competitivo, e che ha più aziende in mani straniere. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea stanno col fiato sul collo per controllare i pagamenti del debito, ignorando il livello di benessere o di povertà dei cittadini italiani. Infatti, pur di esigere i pagamenti, il Fmi non esita a chiedere tagli alla spesa pubblica (sanità, scuola, amministrazione, ecc.) e ulteriori privatizzazioni, peggiorando le condizioni del paese.
Lo scopo principale del Fmi (dobbiamo ricordare che esso è un istituto finanziario controllato dai banchieri anglo-americani) è quello di impoverire i cittadini italiani, in armonia con ciò che già, nel 1998, svelava Zbigniew Brzezinski, nel suo libro La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici. L'eccessivo benessere dei paesi dell'Europa occidentale, secondo Brzezinski, era un grave ostacolo, poiché tale livello di ricchezza era più elevato rispetto a quello della media dei cittadini americani, ed essendo l'Europa considerata un protettorato americano, ciò risultava inammissibile.
L'Europa ha una posizione fondamentale di fortezza geostrategica per l'America. L'Alleanza Atlantica autorizza l'America ad avere influenza politica e peso militare sul continente … se l'Europa crescesse, questo beneficerebbe direttamente l'influenza americana … L'Europa Occidentale è in larga misura un Protettorato americano e i suoi Stati ricordano i vassalli e i pagatori di tributi dei vecchi imperi... L'Europa deve risolvere il problema causato dal suo sistema di redistribuzione sociale che è troppo pesante e ostacola la sua capacità di iniziative.
L'Europa doveva essere indebitata e impoverita affinché il dominio statunitense potesse imporsi su tutta l'Eurasia. Occorreva con urgenza impoverire i ceti medi, e ciò è avvenuto in Italia anche a causa della Legge Biagi, che legalizza lo sfruttamento lavorativo. Il resto lo fecero il sistema bancario, le dittature imposte al Terzo mondo (che hanno costretto milioni di persone ad offrire manodopera semischiavile, abbassando il costo del lavoro e smantellando il sistema dei diritti, frutto di lotte politiche e sindacali), e le privatizzazioni, promosse dal Fmi. Le campagne mediatiche menzognere fanno credere che il Fmi e la Bce tengano alla "stabilità" del paese, o alla "competitività" delle aziende italiane, mentre è l'esatto opposto: vogliono tenere in scacco l'intera economia del paese, strozzandola con il debito e rendendola poco competitiva attraverso varie strategie.
I nostri politici, anziché cercare di contrastare il potere del Fmi, lo assecondano, e lo propagandano come giusto e autorevole, mostrando così che l'Italia è soggiogata anche politicamente al potere straniero, come una colonia. In molti modi (privatizzando, non tutelando i prodotti italiani, accettando di pagare i diritti di signoraggio, foraggiando le società private, ecc.) i nostri governi operano per la distruzione economica e finanziaria del nostro paese, e non per il nostro benessere e per i nostri valori.
Il livello di povertà nel nostro paese è aumentato dal 6,5% della popolazione degli anni Novanta, all'11,7% del 2001, fino al 12% del 2005. Le riforme neoliberiste imposte all'Italia dal Fmi hanno sottratto ricchezza alla classe media e inferiore, per arricchire l'élite già ricca, come dimostra l'analisi fatta dalla Banca d'Italia nel periodo 1989/1998:
Il 10% delle famiglie più povere aveva il 2.7% del reddito totale nel 1989, mentre nel 1998 questa quota è scesa al 2%. Il 10% delle famiglie più ricche ha invece incrementato la propria quota dal 25.2% al 27.5%. L'incremento dell'indice di Gini, in 9 anni, è stato pari all'11%... piccoli incrementi (decrementi) dell'indice di Gini provocano enormi aumenti (diminuzioni) del divario tra il più povero e il più ricco dell'insieme. Oggi circa il 20% delle famiglie più ricche possiede oltre la metà del reddito del paese, mentre il 20% delle famiglie italiane povere possiede soltanto circa il 6%. Ciò spiega perché le famiglie ricche italiane, come i Benetton, i Pirelli e i Falck, siano così accondiscendenti alla colonizzazione dell'Italia: ciò garantisce loro maggiore ricchezza e privilegi.
Un paese risulta soggetto al dominio coloniale quando non è padrone del proprio territorio e non sceglie liberamente la propria organizzazione politica ed economica. I diritti degli indigeni coloniali sono subordinati agli interessi della potenza dominante, che si erge al di sopra delle leggi. Le autorità dei paesi coloniali esigono ingenti pagamenti, come accade con le banche titolari del nostro debito, che impongono alle nostre autorità di elaborare una finanziaria annuale per pagare il debito.
Il debito è in realtà una forma di tassazione imposta dalle banche, architettata in modo tale che i cittadini credano di aver ricevuto qualcosa da dover pagare, mentre invece si tratta di una tassazione di tipo coloniale, cioè creata per impoverire i cittadini e arricchire il sistema di potere. Il debito imposto all'Italia è talmente alto che nel 2002 equivaleva ad un terzo del debito pubblico complessivo di tutti i paesi dell'Unione Europea (che era di 4707,7 miliardi di euro). Nonostante le manovre finanziarie che hanno dissanguato il paese, nel gennaio 2007 il debito era ancora di 1.605,4 miliardi. Non sarà mai estinto, affinché l'Italia possa rimanere in eterno assoggettata all'élite bancaria.
Le finanziarie hanno anche l'obiettivo di stanziare denaro per la partecipazione alle guerre del paese dominante, e nell'ultima finanziaria il governo ha aumentato tali spese a 20,354 miliardi di euro, che è una somma altissima per un paese che non ha nemici e ufficialmente non è in guerra. Si comprende tale spesa soltanto se si pensa che ogni paese sottomesso ad un potere coloniale è obbligato a partecipare alle spese militari del paese imperiale. Gli italiani pagano il 41% del costo di stazionamento delle basi americane, si tratta complessivamente di 366 milioni di dollari all'anno.
Proprio come una colonia, subiamo un'occupazione militare e siamo anche costretti a pagarla. (....)
(...)La privatizzazione delle aziende pubbliche (ferrovie, poste, autostrade ecc.) ha prodotto perdite economiche gravissime, il peggioramento della qualità dei servizi e l'aumento del costo per l'utente. Svendere i beni pubblici non significa soltanto impoverire il paese (che perde i profitti delle aziende vendute ed è anche costretto a finanziarle), ma anche indebolire il governo. Ad esempio, il Ministro per lo Sviluppo economico Pier Luigi Bersani ha propagandato come importante la sua riforma che eliminava il costo di ricarica delle schede telefoniche, senza dire però che il governo non aveva alcun potere di impedire che la cifra della ricarica venisse reinserita mediante l'aumento delle tariffe. Nel giro di pochi giorni, alcune società telefoniche cambiarono i piani tariffari, in modo tale da garantirsi gli stessi introiti che avevano in precedenza.
Questo è un chiaro esempio di come le privatizzazioni sottraggono denaro e potere all'intera comunità, costringendo i cittadini a sottostare allo strapotere delle società private. Se i nostri ministri dovessero davvero difendere gli interessi dei cittadini, contro le corporation e le banche, sarebbero immediatamente richiamati all'"ordine" dalle autorità dell'Unione Europea e da quelle statunitensi.
La privatizzazione della Telecom, avvenuta nell'ottobre del 1997, permise ad un gruppo di imprenditori e banche di impadronirsi dell'azienda, e al Ministero del Tesoro rimase soltanto il 3,5%. Il piano per il controllo di Telecom era stato progettato dalla Merril Lynch, dal Gruppo Bancario americano Donaldson Lufkin & Jenrette e dalla Chase Manhattan Bank. Dopo dieci anni dalla privatizzazione, il bilancio era disastroso sotto tutti i punti di vista: oltre 20.000 persone erano state licenziate, i titoli azionari avevano fatto perdere molto denaro ai risparmiatori, i costi per gli utenti erano aumentati e la società era in perdita.
I danni per la privatizzazione di Telecom non sono stati soltanto di natura finanziaria, ma anche relativi alla qualità e alla sicurezza del servizio. La privacy dei cittadini non è in alcun modo tutelata, e gli scandali degli ultimi anni lo hanno provato.
Oggi l'azienda è ridotta male, e i titoli azionistici oscillano. Tre grandi banche, Morgan Stanley, Goldman Sachs e Ubs, possono far salire o scendere qualsiasi titolo, avendo nelle mani il 70% del credito speculativo mondiale, e potendo diffondere notizie che condizionano il comportamento degli investitori. Manovrando il valore delle azioni, si condiziona l'andamento dell'azienda, e ciò consente ai grandi colossi bancari di preparare il terreno per appropriarsene, come sta accadendo anche con Alitalia.
Pirelli ha aperto trattative in esclusiva col colosso American Telephone and Telegraph Company (At&T), che appartiene ad un gruppo di grandi banchieri, che quest'anno ha vinto negli Usa un appalto pubblico ricchissimo, per gestire il settore delle telecomunicazioni, e fornire servizi a 135 delle 184 agenzie federali, insieme a Qwest e Verizon. Le trattative con At&t, e America Movil dureranno fino al 30 aprile, poi Generali e Mediobanca avranno 15 giorni di tempo per esercitare il loro diritto di prelazione.
Non sappiamo ancora se sarà la At &t ad impadronirsi di una delle aziende più importanti del nostro paese, ma sappiamo già cosa accadrà dopo la svendita: si avranno licenziamenti, aumenterà il costo per l'utente, la qualità del servizio sarà sempre più scadente ed emergeranno di tanto in tanto illegalità diffuse, che riveleranno la possibilità di controllo su ogni cittadino.
Chi dubita che l'Italia di oggi abbia caratteristiche di natura coloniale provi a scrivere una lettera alle autorità italiane, per chiedere spiegazioni sui debiti bancari e sul signoraggio, sulle privatizzazioni, sulla sovranità territoriale dell'Italia oppure sulle testate nucleari. Non otterrà alcuna risposta chiara, esauriente e onesta (semmai dovesse ricevere qualche tipo di risposta), e questa sarà una prova che le nostre autorità sono a servizio delle banche e delle corporation internazionali, e subordinano ad esse i diritti dei cittadini italiani, come accade nelle colonie.
di Antonella Randazzo per www.disinformazione.it

mercoledì 6 agosto 2008

Formule di Democrazia Partecipata: e-TM

Le pratiche deliberative statunitensi, grazie alle nuove tecnologie, si sono notevolmente evolute, permettendo a molte persone di riunirsi, anche in luoghi diversi, per discutere ed esprimersi a proposito di politiche pubbliche. Di recente sperimentazione una nuova versione del TM, che offre alcuni elementi di innovazione dal punto di vista della tecnologia
adottata: l’Electronic Town Meeting [e-TM].
Il metodo “electronic town meeting” [e-TM] consente di mixare i vantaggi della discussione per piccoli gruppi, con quelli di un sondaggio rivolto ad un ampio pubblico.
In questo modo l' alternanza fra momenti di discussione e di momenti di voto individuale permette che l’esito delle discussioni produca delle domande da sottoporre immediatamente all’assemblea. Nell’e-TM si svolgono in successione tre differenti fasi di lavoro, volte a facilitare i partecipanti nel trattamento dei temi oggetto della discussione:
1. una prima fase di informazione e approfondimento grazie agli apporti di
documenti ed esperti;
2. una seconda fase di discussione in piccoli gruppi;
3. una terza fase in cui i temi sintetizzati e restituiti in forma di domande sono proposti ai partecipanti che si possono dunque esprimere in modo diretto votando individualmente mediante delle tastierine (polling keypads).
Questo modello di democrazia deliberativa è ormai riconosciuto a livello internazionale e tale metodologia si va diffondendo ormai in svariati contesti. Negli USA il metodo è stato usato in situazioni diverse e in Europa è stato sperimentato, ma a scala ridotta e non aperta al pubblico. La prima volta in Italia è stata a Torino, nel Settembre del 2005, prima delle Olimpiadi invernali: duemila tra ragazzi italiani e stranieri si sono incontrati per confrontarsi sui grandi temi mondiali.
Attraverso l’elettronic town meeting la tecnologia viene messa al servizio della partecipazione, in pratica, una cibernetica rivisitazione di quegli incontri pubblici ed assemblee di cittadini, ponte tra la democrazia rappresentativa e la democrazia diretta. Un grande esempio di e-TM il televoto con cui 4.000 newyorchesi si sono pronunciati sul miglior progetto di ricostruzione per l’area delle Twin Towers.
continua

Formule di Democrazia Partecipata: Town Meeting

Continuianamo la disquisizione sui metodi della Democrazia Partecipata, parlando oggi dei Town Meeting, una particolare forma di Governo Locale, praticata in scioltezza e regolarità, nel nord est degli USA; nella regione chiamata New England (Vermont, Connecticut, Maine, Rhode Island e Massachussets), la prima zona degli USA colonizzata dagli inglesi. I Town Meeting hanno una storia che ha più di 300 anni, attualmente trovano attuazione nelle città più piccole di 6000 abitanti, questo non preclude però alle città più grandi, in ogni momento, di passare a una forma rappresentativa di Town Meeting. Queste assemblee cittadine si tengono, in genere, una volta all'anno, tradizionalmente il primo martedì di marzo, tendenzialmente, iniziano al mattino e terminano nel primo pomeriggio . Ogni città regolarizza queste Assemblee Partecipative a propria discrezione, di conseguenza, nei procedimenti dei Town Meeting, si sono evolute varie forme diverse. La forma di Town Meeting più diffusa, quella aperta alla partecipazione e al voto dei cittadini, è l'Open Town Meeting, che sembra sia attivo in almeno 1000 cittadine; in questa formula partecipativa, possono partecipare tutti i cittadini aventi diritto di voto, le decisioni prese hanno valore vincolante per gli amministratori. Vengono discussi tutti i temi che riguardano l'amministrazione della città, partendo dall'acquisto di suppelletili, all'intero bilancio cittadino; decidendo quanto assegnare all'istruzione, alle strade, alla sanità. Un Town Meeting è preceduto da un avviso, esposto, nei luoghi pubblici, almeno 1 mese prima e che indica il luogo e l'orario dell' incontro con elencati tutti i temi che verranno dibattuti. L'affluenza varia molto, a seconda della grandezza della città, la media è del 20,5 % ( la partecipazione alle votazioni locali, nel resto degli USA, quando vengono svolte da sole, non accompagnate alle votazioni presidenziali o statali, a volte arrivano a percentuali anche sotto al 10% ), ma in quelle più piccole si arriva a partecipazioni dell'80%. Si sceglie all'inizio dell' incontro il moderatore dell' assemblea , ma generalmente, anche se non è regola, è quello dell' anno precedente. Durante il Town Meeting vengono anche eletti i selectmen, ossia gli amministratori che dovranno attuare le scelte prese nella giornata. L' assemblea si svolge in maniera ordinata, seguendo regole prestabilite e codici di condotta decisi assieme, si susseguono interventi dei cittadini che durano mediamente un minuto, anche se non c'è nessun limite temporale previsto; la durata viene regolata semplicemente dall'abitudine e dalla consuetudine ad essere concisi. Il moderatore legge i punti all' ordine del giorno e le, conseguenti, proposte suggerite dagli amministratori in carica. Poi chiede il parere dei presenti, se nessuno alza la mano, il punto è considerato approvato. Chi interviene, di solito, lo fa per chiedere delucidazioni o per proporre un emendamento; in questo caso chi fa l'emendamento deve essere sostenuto dall'appoggio di altri cittadini (il numero varia da città a città). Se l'emendamento viene sostenuto, il moderatore fa iniziare una discussione a cui tutti possono partecipare. Il voto avviene, spesso, tramite voce, il moderatore chiede a chi è d' accordo di dire sì, a che non è d' accordo di dire no. Ad esito chiaro e senza dubbi, si procede con il successivo punto, altrimenti si vota per alzata per mano, senza una vera conta. Se la situazione ancora non è chiara, si passa al ballottaggio, con voto segreto scritto su un foglietto, e consegnato in una scatola sul tavolo del moderatore, il quale, subito dopo effettua il conteggio. I town meeting hanno una storia notevole, questo ha consentito lo sviluppo di procedure che li hanno resi veloci e produttivi.
continua

martedì 5 agosto 2008

Formule di Democrazia Partecipata: I metodi

La formula partecipiva più nota, la quale ha dato spunto per nuove esperienze, sicuramente è la trasformazione politica sperimentata a Porto Alegre (Orçamento Partecipativo, in italiano “bilancio partecipativo”), la quale porta in sé germi potenzialmente rivoluzionari: la rinuncia della classe politica a vaste fette dei privilegi insiti nel suo potere decisionale, l'attenzione ai più deboli e alle minoranze economiche, etniche, sessuali e culturali, lo stimolo a far sviluppare ai cittadini una forte coscienza critica verso l'operato dei propri eletti.
Vediamo però un poco il contesto europeo.
Sul piano europeo il più grande esperimento di democrazia partecipata è sicuramente la CNDP francese (Commision Cationale du Débat Public). La CNDP è un organismo indipendente a base nazionale che “anima” i dibattiti pubblici su temi riguardanti soprattutto grandi questioni d’amministrazione o di opere pubbliche. La CNDP è costituita da una serie di CPDP (Commision Particulières du Débat Public) che vengono create appositamente per ogni dossier aperto. La CNDP deve decidere entro due mesi dal termine delle varie istanze partecipative che possono differire tra loro a seconda dei casi.
La CNDP ha a propria disposizione varie opzioni: Può organizzare di propria iniziativa un dibattito pubblico affidando l’organizzazione a una CPDP creata all' uopo, affidare l’organizzazione del dibattito pubblico al diretto interessato oppure indirizzare il diretto interessato sule modalità di discussione all’interno del dibattito pubblico.
Nei primi due casi chi ha gestito il dibattito pubblico ha due mesi di tempo per stabilire le
questioni del dibattito e le modalità organizzative. Il dibattito si sviluppa in quattro mesi,
che possono essere portati a sei dalla CNDP in casi eccezionali, alla fine del dibattito gli
organizzatori redigono un report che viene usato come linea guida per una decisione
finale. In Europa troviamo anche significative le esperienze delle cosidette “giurie di cittadini”, su queste però tratteremo più avanti.
Diamo anche uno sguardo al contesto italiano
Il primo comune italiano a dotarsi di uno statuto che vincola la giunta all’approvazione di
un bilancio partecipativo è stato il municipio Pieve Emmanuele, situato in provincia di
Milano, con 17.000 abitanti. La struttura che è stata data alla redazione del bilancio si
articola in tre fasi, la stessa struttura che a grandi linee è stata adottata in molti altri
bilanci partecipati, Novellara, Modena, Piacenza, Pescara, San Benedetto del Tronto, Udine
ecc. Troviamo una prima fase di ascolto della cittadinanza, attraverso raccolta delle proposte dei cittadini o l’emersione dei bisogni, questo a seconda delle varie realtà viene effetuato con modalità differenti: si passa dalle assemblee propositive alla compilazione di apposite schede. Una seconda fase consiste nel vaglio delle proposte, attraverso tavoli di attuabilità con la cittadinanza o direttamente dagli uffici comunali interessati La terza fase genera il voto diretto dei cittadini sulle singole proposte, le proposte che ottengono più voti vengono attuate e inserite nel bilancio cittadino. Purtroppo ad oggi, anche per limiti di legge, non tutti i fondi presenti nel bilancio vengono discussi attraverso forme partecipative, la maggior parte di questi soldi viene destinata alla realizzazione di spazi pubblici come parchi, giardini e campi sportivi.
Non plus ultra, a mio giudizio, è invece l’esperienza del comune di Grottammare (AP) dove la partecipazione dei cittadini alle scelte della pubblica amministrazione è in atto da quasi
vent’anni, dove parlare di partecipazione in un ottica di puro bilancio economico è quanto
meno riduttivo. Grottammare sviluppa la partecipazione grazie a due organi appositamente creati le assemblee e i comitati di quartiere. Le prime vengono riunite periodicamente prima della redazione del Bilancio e hanno lo scopo di arrivare ad una approvazione condivisa di
questo documento contabile cosi importante per la comunità. Le assemblee hanno il
vantaggio di legare al processo partecipativo la dimensione di collettività e di dibattito
pubblico, questo è fondamentale in quanto solo in tali occasioni l’interesse privato viene
scavalcato dalla dimensione comunitaria e un problema individuale diventa battaglia
comune. I comitati di quartiere invece rappresentano la dimensione permanente della
partecipazione dei cittadini, essi hanno il compito di seguire lo stato di attuazione delle
scelte collettive ed eventualmente presentare nuove richieste. I comitati hanno anche il
compito di preparare il dibattito assembleare di cui concordano anche le date assieme alla
pubblica amministrazione e non ultimo svolgono anche un importantissimo ruolo di
informazione per la collettività. Di quanto nato in Toscana, la prima legge regionale sulla partecipazione, abbiamo già parlato, ma una cosa va aggiunta a quanto già detto: la legge sulla partecipazione toscana si è costruita attraverso forme di partecipazione (a marina di Carrara, esempio, si è tenuto un town meeting proprio su questo argomento) a cui i cittadini hanno risposto attivamente, redando, ad esempio, il documento preliminare della legge che, dopo un primo passaggio in Consiglio Regionale, è stato, ulteriormente, discusso dagli stessi partecipanti al town meeting.
(continua)

domenica 3 agosto 2008

Formule di Democrazia Partecipata: Concetti di base

Prima di giungere ad illustrare alcune tra le più diffuse formule partecipative, riorganizziamo un discorso di illustrazione, magari già intrappreso in queste pagine, ma sempre utile a chiarire alcuni concetti di base.

Il funzionamento delle democrazie moderne.
Nel nostro sistema i cittadini, aventi diritto al voto, delegano, a scadenze regolari, alcuni tra di essi, che avranno il compito di rappresentarli al governo del paese. In questo modo essi rinunciano alla propria autonomia politica, in cambio della libertà nella sfera privata. La democrazia di stampo rappresentativo ha visto una notevole diffusione nel XX secolo; infatti se nel 1926 erano ventinove i paesi che potevano vantare credenziali democratiche, nonostante scesero drammaticamente a dodici nel 1942 , dopo la sconfitta di Hitler e il crollo del blocco comunista, una settantina dei centoventisette paesi aderenti all’ONU, possono oggi essere considerati, in linea di massima, democrazie rappresentative.
Nonostante lo sviluppo indubbiamente positivo che si ebbe grazie a questa diffusione va comunque osservato che lo spazio concesso in teoria e in pratica al cittadino è minimo. Il governo e le decisioni sono esercizio esclusivo del governo, il compito del cittadino è semplicemente quello di recarsi alle urne periodicamente per eleggerli. Viene dunque a mancare in molti casi la natura prima di questa forma di governo, la sovranità popolare, non tanto per volontà degli eletti quanto per l’impossibilità di attuazione dovuta alla disastrosa scarsità di organi e strumenti predisposti all’ascolto dei cittadini. Nella società moderna e nelle sue istituzioni governative manca il collante necessario a trasmettere il sentire diffuso di comunità su cui si basa l’idea stessa di nazione e d’appartenenza ad un' unica collettività: un inevitabile effetto della dilagante mancanza di collegamenti e conseguente sfiducia reciproca che definisce il dialogo istituzione-cittadino.
Il percorso fin qui descritto porta alla ricerca di una nuova idea democrazia, quasi un ibrido delle due forme fin ora esistenti – democrazia rappresentativa e diretta – quella nuova istituzione che prende il nome di democrazia partecipata.

Vie alternative attraverso la partecipazione
Abbiamo già scritto che se in italiano, deliberare significa decidere o approvare, l’inglese “to deliberate” significa discutere e decide di comune accordo; l’aggettivo deliberativa, riferito alla democrazia, nasce proprio da questo significato. Le forme di democrazia
partecipativa o deliberativa hanno come fine ultimo il mediare tra cittadini e istituzioni, mettendo in luce agli occhi delle ultime i bisogni e le richieste dei primi. Non si vogliono spogliare le istituzioni delle loro funzioni, ma fornire uno strumento supplementare per un miglior governo. Nascono cosi in tutto il mondo leggi che mirano a regolare gli strumenti della partecipazione. Strumenti, metodi e regole che aiutano il processo di partecipazione nella vita pubblica e hanno come obbiettivo quello di fornire ai cittadini organi riconosciuti e accreditati attraverso i quali far sentire la loro voce e partecipare alle scelte del governo,
soprattutto, ma non necessariamente (dico io), locale.

Continua

Formule di Democrazia Partecipata

Riordiniamo di nuovo le idee, e partiamo per un nuovo percorso di illustazione della democrazia partecipata, e delle sue formule. Ormai abbiamo acquisito che si tratta di nuova forma di vivere i processi democratici, che si sta diffondendo a macchia d’olio in tutto il globo ed assume in ogni realtà aspetti e percorsi sempre originai e diversi.
La democrazia partecipata si pone come obbiettivo primario quello di coinvolgere direttamente i cittadini in alcune delle scelte di governo, ed in particolare quelle che lo riguardano direttamente più da vicino.
La democrazia partecipata o deliberativa cerca di ritrovare una via di mezzo tra l’ormai debole forma di democrazia rappresentativa e l’inattuabile forma della democrazia diretta senza cadere in soluzioni illusorie e populistiche.
Io vedo nella Democrazia Partecipata una possibile spinta di rinnovamento per ricostruire e riconquistare una coesione sociale persa e un legame istituzione-cittadino di cui non resta che la memoria sfuocata.

Una breve analisi del concetto proposta da chi ha più cognizione in causa di me...paticolare attenzione alle ultime righe
tratto da “La democrazia che non c'è” di Paul Ginsborg, Einaudi

“L'aggettivo inglese deliberative (deliberativo), riferito alla democrazia, racchiude in sé il doppio significato di discutere e decidere. Nell' arena deliberativa i cittadini sono chiamati non solo a dibattere tra loro o con i politici, ma a giocare un ruolo significativo nel processo decisionale. È centrale a questo proposito l'idea di arrivare alle decisioni coinvolgendo tutte le parti in causa o i loro rappresentanti. Il metodo utilizzato è il dibattito inserito in un contesto strutturato di collaborazione, basato su un'informazione adeguata e una pluralità d’opinioni, con precisi limiti di tempo entro i quali pervenire a decisioni. Idealmente le arene deliberative contribuiscono a far sentire i cittadini informati e partecipi, non isolati, ignoranti e impotenti. Aiutano politici e amministratori a governare meglio e a colmare il divario che troppo spesso li separa dalla società civile. La democrazia deliberativa vanta un certo numero di prerogative. Luigi Bobbio ne evidenzia tre, particolarmente importanti. Innanzi tutto essa è potenzialmente, pur se non necessariamente, in grado di generare decisioni migliori, poiché nel corso del dibattito si procede ad una ridefinizione dei problemi e si propongono nuove mediazioni e soluzioni.
In secondo luogo le decisioni acquistano maggiore legittimità se derivate dal processo di deliberazione, in quanto non prodotte separatamente da un piccolo gruppo ma da una pluralità di persone, alcune delle quali possono anche non condividere la decisione finale, ma tutte riconoscono la legittimità della procedura attuata. Terzo in ordine di citazione, ma non d’importanza per i nostri obiettivi, la deliberazione promuove le virtù civiche insegnando alle persone ad ascoltare, a essere più tolleranti e spesso a costruire rapporti di fiducia reciproca.”
Giorgio Bargna

Parlare di Democrazia Partecipata: l'avvallo


Vediamo quali articoli, costituzionali e internazionali, avvallano la nostra voglia di partecipazione. Una voglia che pretende che partecipazione e democrazia partecipativa vengano riconosciute dello status di valore fondamentale e vengano introdotte concretamente nella pratica normativa e amministrativa. Del resto l’orientamento esplicitato nell’art. I-46 del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, dichiara che, accanto e complementarmente alle istituzioni di democrazia rappresentativa ed agli istituti di democrazia diretta, non solo la partecipazione in genere ma anche le forme più incisive della democrazia partecipativa abbiano un preciso collegamento con le realtà di base degli ordinamenti democratici. Riferimenti li troviamo anche nella nostra Costituzione Repubblicana, sono presenti, ad esempio, nell’art. 3.2, quando individua nel promovimento della partecipazione in campo politico, economico e sociale un fine generale dell’ordinamento della Repubblica e di tutta la sua azione, precisando che la “partecipazione” vi è prevista come un fine generale dell’azione della Repubblica, in stretta unione allo “sviluppo della persona umana”. Questo ragionamento non sta in piedi da solo, infatti viene sostenuto con l’art. 2, che esprime la centralità dei diritti della persona e il
loro complemento nelle formazioni sociali, e con l’art. 1 e l’appartenenza al popolo
della sovranità e del suo esercizio; inoltre, con tutti i diritti e i doveri
fondamentali degli individui e delle formazioni sociali codificati nella prima parte
della Costituzione. Pertanto la partecipazione diventa, sulla base dell’art. 3 e di queste altre norme, principio fondamentale delle regole e delle istituzioni repubblicane.Conseguentemente potremmo vedere Partecipazione Popolare e Democrazia Diretta e Partecipata come i contenuti di un vero e proprio “diritto soggettivo”, nella forma di un diritto individuale fondamentale: il che potrebbe ricondursi alla concezione tradizionale che concepisce l’ attività politica del cittadino come la vera e propria espressione di un diritto fondamentale (diritto politico).
Giorgio.

Parlare di Democrazia Partecipata


Oggi, sulla spinta delle esperienze latinoamericane, ma ormai anche europee, nonchè italiane, nella nostra società (spingendo sulle istituzioni) vanno acquisendo sempre più forma tratti di Democrazia Partecipata. Questo percorso obbliga ormai le istituzioni ad adeguarsi, generando una regolamentazione formale che pone con forza l’esigenza di una fondazione giuridica della partecipazione e della strumentazione capace di darle corpo.
Scartabbellando nei testi del diritto, malgrado sia già non poco che si discute il tema, non si risontra un vero riconoscimento giurido alla Democrazia Partecipativa, io dico: “e chissa mai perchè?”. Magari qualcuno ritiene che la Partecipazione Popolare non detenga il diritto di essere giustificata nel sistema giuridico. Io ovviamente non la penso così; chiaro però che il diritto non può tutto e, particolarmente in questo campo, non può da solo generare pratiche adeguate, se non si mettono, si producono solidi impulsi sociali e politici e, anzi, tutta una “cultura” nuova. Vedremo quindi, nel futuro prossimo di elaborare ragionamenti che potrebbero essere utili anche a chi voglia procedere in maniera chiara e definita nelle tappe di elaborazione di normative (di differenti livelli, dal comunale al regionale fino eventualmente allo statale) sulla partecipazione e la democrazia partecipativa. Occorre senza dubbio chiarezza sul tema, in quanto si trova difficoltà nell' avvicinarsi a questo tema .
Allora vediamo cosa occorre fare. Innanzitutto occorre un’opera di pulizia concettuale, poi bisogna diffondere al massimo il pensiero partecipativo, visto che, attualmente, a livello comunale e provinciale, sempre più enti locali sembrano voler evolvere questo principio; anche se ancora in minoranza,mostrando di voler investire su un’idea sempre più accreditabile nazionalmente. Poi bisogna, razionalmente, chiedersi cosa vogliamo in realtà, i modelli adottati sinora sono assai vari, quindi non abbiamo a disposizione un modello standard di riferimento, ma solo alcuni principi orientativi,occore quindi un mix ossimoro, intelligente, di immaginazione e di realismo.

Aggiungo un pensiero di Umberto Allegretti:
La base teorica primaria che si può rintracciare a fondamento della
partecipazione e della democrazia partecipativa affonda le radici nel generale
rapporto tra società e istituzioni, che conforma le strutture genetiche degli
ordinamenti giuridici democratici. Basterà appoggiarsi sulle nozioni fondamentali
proposte dalla scienza italiana normale, che distingue tra stato-apparato e stato-
comunità, per delineare un diverso rapporto tra i due livelli in cui la società sia dominante. E converrà riferirsi altresì alla dottrina, che sta a base degli ordinamenti contemporanei, dell’appartenenza della sovranità al popolo. Entrambi questi ordini di idee portano infatti a ritenere che le forme della democrazia – considerate nel loro sviluppo storico concreto – tendono naturalmente ad arricchirsi, nel senso di ammettere come loro elemento, i più elevati gradi di partecipazione.

Dobbiamo porre attenzione nella proposta, che va elaborata, non da profani come me ma , da esperti nel settore, perché il tema partecipativo si intreccia con delle affinità quali il ruolo delle formazioni sociali, l’associazionismo, il volontariato, la concertazione, la
sussidiarietà sociale; come pure con la partecipazione al procedimento amministrativo e il diritto di accesso o ancora con altre situazioni quali l’autonomia locale, l’articolazione dei diversi livelli di governo, la sussidiarietà detta verticale, e gli istituti di democrazia diretta.

Proseguiremo il tema, Giorgio.

sabato 26 luglio 2008

Come e perchè partecipare


E' fuori da ogni discussione che il tentativo di cementificare pratiche di Partecipazione Popolare sia il sintomo di una voglia di cambiamento, di una sorta di cambiamento epocale della concezione della Democrazia. Questa voglia la notiamo, soprattutto noi internauti, nel web, viene invece un po' nascosta da altri media e questa diviene una limitazione alla fantasia politica che le forme di Democrazia Partecipata generano; siamo una società
in cui un’autolimitazione del progresso delle tecniche e della conoscenza, viene posta non solo per motivi religiosi o di altra concretezza, ma credo anche per mere questioni di prudenza, intese proprio nel significato del termine. Io però rivolterei il calzino! Proprio la prudenza sostiene lo sforzo d' immaginazione di chi promuove la Partecipazione, quella volontà prudente atta a mantenere e ad attuare le condizioni della Democrazia, difatti spesso e volentieri la partecipazione è stimolata proprio da dibattiti relativi alla concezione del “progresso” e da questioni ecologiche. Molti obbiettano la lentezza a volte presente nelle pratiche partecipative e le difficolta ad essa collegate, ma possiamo controbattere, concretamente, che secondo la nostra filosofia la democrazia va inventata ora per ora. Questa sorta di opposizione alle istituzioni, ma in realtà non è questo, diventa salutare per la democrazia poiché per sussistere la Democrazia esige l’Opposizione! Di contro è stato di
conflitto di poteri, di fatto è lotta alla demagogia. Il problema della demagogia, la sua definizione e il suo protagonista, cioè l’uomo politico demagogico in democrazia ( colui che vuole governare da solo) , sono problemi noti già alla tradizione classica, nonché a quella moderna, e, nella storia “recente”, cominciano a trovare le prima dita puntate nel finire del XVIII secolo. La Democrazia, al contrario della demagogia, richiede la comune elaborazione civile del conflitto. Immaginare e promuovere pratiche di partecipazione, mostrare che un altro modo del “fare” democrazia è possibile, dovrebbe contribuire a destare nei cittadini gli anticorpi e l’insofferenza nei confronti del politico demagogico, e più in generale nei confronti dello stile demagogico, che può esprimersi tanto nell’esercizio del potere, quanto nella relativa comunicazione propagandistica.
Oggi partiti e relativi leader fanno sempre più ricorso a marketing e Tv, traviando il dibattito che non verte più sulle questioni ma sulle persone e la loro immagine; cosa stiamo facendo, dunque, parlando di partecipazione? Molto! Per sostenere le pratiche, per immaginarle, ci occorre però anche una svolta nella consistenza scentifica, non è solo questione di teoria o speculazione; le pratiche di partecipazione sono relazioni di comunicazione e pratiche di circolazione della conoscenza, la loro impostazione dipende sempre dalla capacità intelletiva e pratica di chi le sostiene. Sia chiaro che molte difficoltà possono nascere dai soggetti, in ognuno di essi possono esserci alterità difficilmente tollerabili, il problema è quanta ambiguità e quanta conflittualità siamo in grado di tollerare, di “sopportare”; c’è bisogno di immaginare pratiche avvincenti, di investire in formazione in modo intelligente, di curare l’epistemologia che sostiene le pratiche; c’è bisogno di pensare e di diffondere le pratiche di partecipazione come pratiche di elaborazione civile dei conflitti.
Giorgio Bargna

Per un futuro migliore


Ho letto e riletto più volte questo post, la paura di non esprimere correttamente il mio pensiero, unita al fatto che, in alcuni passaggi, mi sembra di sputare nel piatto in cui mangio, mi bloccavano dal pubblicarlo..... poi ho deciso......
Cosa potremmo oggi definire l'occidente? Potremmo tutto sommato definirlo un'entità non più solo geografica, ma ideologica,espressione di una razza; l 'universalità del messaggio cristiano e l'individualismo sono stati fondamentali nella costituzione di questo pensiero . Messaggio etico (quasi etnico) occidentale è la missione di liberazione degli uomini dall'oppressione e dalla miseria.
Contesta Serge Latouche:« La riduzione dell'Occidente alla pura ideologia dell' universalismo umanitario è troppo mistificatrice. È difficile dissociare il versante emancipatore, quello dei Diritti dell'uomo, dal versante spoliatore, quello della lotta per il profitto. »
Caratteristiche salienti dell'Occidente sono lo stretto legame con capitalismo, globalizzazione e industrializzazione, ed una serie di spostamenti di baricentro; di quel centro che un tempo stava in un luogo,poi in un altro dell' Europa, che nell'ultimo secolo si è spostato in America, seguendo una dinamica tale che fa si che non potremo mai prevedere dove potrebbe trovarsi domani. Principio fondamentale dell'Occidentalizzazione è stata, ad esempio, l'invenzione del "terzo mondo" sempre descritto in stato di abbandono. Sicuramente questa definizione non è del tutto opinabile, ma certamente è stata aggravata da una terapia d'urto tutta occidentale: le politiche di "sviluppo". Introdurre in altre culture valori magari sconosciuti ad esse, quali scienza, tecnica, economia ha minato sicuramente la loro stabilità etnica; l' Occidente non ha certo, nelle colonizzazioni esportato un dono, ma ha violentato etnie, razze e culture laddove si è presentato, tra le vittime più ecclatanti gli Indiani d'America.
Industrializzazione,urbanizzazione e nazionalitarismo (organizzazione nazionale sempre più importante e burocratizzazione) sono le caratteristiche di ogni "modernizzazione"; ma non sempre questi tre cardini portano al benessere che sembrano promettere, alle volte sono invece portatori della distruzione di ciò che poi si vorrebbe ricostruire diversamente. Il fenomeno non è del tutto involontario, che una parte delle persone si considerino "povere" è in un certo senso fisiologico per l'esistenza della macchina capitalistica, perché a livello simbolico la povertà è il segno dell'inferiorità, nell'immaginario occidentale, ed è in esso necessario che ci sia sempre qualcuno "sotto".
Così facendo però, vittima è diventato, per fortuna, anche l'ordine dello stato-nazione moderno, messo in discussione da questi processi globali. Il capitale, dopo essere stato fulcro in questa istituzione, porta alla crisi dello stato-nazione, che vede il proprio potere espropriato della finanza transnazionale. Questa deterritorializzazione della società non porta ad un nuovo ordine mondiale, ma ad un disordine, una crisi di civiltà.
Oggi tocca a noi curare questa piaga, certo i punti cardine dell' occidentalismo non possono essere smantellati in toto, ma il ritorno a principi e valori che risalgono alla nostra storia, neppure troppo remota, il “dissacrare” il profitto a vantaggio della sostenibilità e l'esaltazione della Comunità Locale, uniti ad una gestione territoriale delle risorse potrebbe rimettere in sesto quella civiltà che abbiamo svenduto al denaro. Fare un passo indietro nella modernizzazione e nel capitalismo sfrenato ( non in quello moderato, non consideratemi un bolscevico) costa parecchio a livello di benessere personale, ma potrebbe riportare a galla il valore dell' uomo a discapito di quello del profitto senza regole.

Discorso difficile da affrontare, ma grazie al quale i nostri figli, un giorno, ci potrebbero ringraziare, Giorgio Bargna.

sabato 26 aprile 2008

Un altro 25 Aprile

Alcuni di voi (forse) si saranno chiesti come mai non ho postato nulla sul 25 aprile; la risposta, anzi le risposte, sono due. Due risposte di carattere completamente diverso tra loro.

La prima motivazione è semplice (e futile, forse, allo stesso tempo), lo avete fatto in molti, una voce in più non sarebbe di certo servita a molto; poi credo sia già chiaro a tutti che mi riconosco pienamente nella democrazia, che aborro fortemente ogni traccia di forma dittatorale. La seconda è un pochino più profonda, più critica, come nello stile che sempre mi ha contraddistinto nella vita (non solo politica), facendo spesso piazza pulita intorno a me.

Rinuncio a gridare “evviva” a questa nostra democrazia, non perchè la disconosca, ma per alcune sue latitanze, anche estreme se vogliamo. Non dico certo che in Italia ci siano restrizioni strette e limitative della libertà personale…anzi… ma lo stato ci toglie molto. Questa casta costretta ogni giorno ad autofinanziarsi per sopravvivere ci lede dei diritti, che in genere non vengono classificati primari nei proclami, ma che nella vita di ognuno sono essenziali.

Ecco, io, ad esempio, non posso gridare “w l’Italia” quando la sera devo accompagnare mia moglie a fare del volontariato a scuola, accompagnarla perchè il semplice attraversare un paese di periferia, tra l’altro non estrema, è diventato insidioso, se non pericolosamente estremo.

Non posso gridare “evviva”, quando entro con mio figlio in un ospedale e non ho la certezza che ne uscirà guarito, vista la mancanza dei mezzi a disposizione delle strutture…io di strutture, poi, conosco quelle lombarde, a detta di molti tra le migliori…non oso immaginare l’affanno di un padre calabrese quando porta il figlio in ospedale.

Non posso gridare evviva quando vedo anziani che hanno faticato una vita, vivere tra la fame e gli stenti….e mi fermo qui con la lista, che potrebbe essere molto più lunga.

Un giorno a forza di provarci apriremo la strada ad una nuova repubblica, basata sui Liberi Comuni e sulla Democrazia Diretta, libera dalla casta e vicina al cittadino.

Un giorno forse questo avverrà…quel giorno sarà un nuovo 25 aprile.


Giorgio Bargna.

venerdì 4 aprile 2008

LA TRIADE


“Il portafogli è la tua gloria”, è una frase concisa e inibitrice di ogni resistenza, che sembra essere lo spot di un modo di essere, di quel modo di essere dominante in questo nostro tempo. Ormai oggi, molti, troppi direi, italiani (e non solo, credo) sono votati essenzialmente a tre obbiettivi: il denaro, il potere, la gloria. Io sono tra quelli che non si riconoscono in questa triade, se per arrivarci bisogna abbandonare per la strada valori, tradizioni ed onestà (intellettuale o materiale che essa sia). Questa triade svuotata da queste virtù è il nulla, è valore zero; è un vuoto contenitore di soddisfazioni scolorite che obbliga i propri adepti a svilire il proprio ego, a vivere solo dell' “apparire”, con l'ansia e l'angoscia tipiche di chi venderebbe l'anima al diavolo, per ottenere in un giorno, quanto un' onesta dimensione umana tradurrebbe in anni di onesto lavoro.
Su cosa si basa la strategia pianificatrice di questi uomini? Sul nulla, perchè denaro, potere e gloria, conquistati senza freni inibitori, non sono quotati in borsa, non hanno futuro preventivabile, basterebbe un collega, un concorrente, un amico di poco superiore in capacità e sfrontatezza e quanto conquistato...puff...sparisce, così come arrivato.... velocemente. Succede perchè in questo gioco perverso, non è l'uomo (superiore o sottoposto che sia) a decidere il futuro, ma la triade, essa detta le “regole” (chiamiamole così, ma tra virgolette), che stima il potere e che ti impone il futuro, e se non accetti di rivenderti ad un nuovo gioco al rialzo della viltà, esci dal gioco.
Ma perchè si è arrivati a questa povertà intelletuale dell' essere umano? La globalizzazione, l' omologazione e la uniformizzazione hanno cancellato dei contesti sociali storici, togliendo dalla morale dell'essere umano tratti di storia, tradizione e valori; spogliato da queste vesti morali l' uomo si è ritrovato schiavo e seguace (per obbligo e convenienza) della triade. Tutto questo perchè l' uomo cerca il potere, la gloria ed il denaro facili, ma oggi, in un contesto in cui il denaro latita a tutte le altitudini, la triade non può più offrire un posto garantito a tutti; la classe politica che ci ha fin qui condotti e la casta (stracolma di adepti alla triade) che li ha appoggiati sin qui ci lasciano in eredità sfascio e povertà. A questo punto tiro in ballo delle parole, che ho scaricato mesi or sono, alle quali non so dare paternità, che parlano delle carestie che colpirono l’Europa nel XVIII secolo: “ In periodi così dolorosi si è sentito ripetere mille volte che ciò che mancava non era il grano né gli alimenti, ma il denaro. Difatti vasti granai restavano spesso pieni fino al raccolto successivo; le scorte, se ripartite proporzionalmente fra tutti gli individui, sarebbero quasi sempre bastate a nutrire la popolazione. Ma i poveri, non avendo denaro da dare in cambio, non erano in grado di acquistarlo. Essi non potevano ricevere denaro in cambio del loro lavoro o non potevano ricevere abbastanza per vivere. Mancava il denaro mentre la ricchezza naturale sovrabbondava”.
Il genere umano ormai si è venduto alla triade, rinunciando ai valori e alla morale, per una rapida carriera ed il dominio sull' altro, ma la triade, come il diavolo, quando muore chi ha stretto un patto con lui, ha presentato il conto, e i poteri economici e mediatici, che l' hanno indottrinato negli ultimi decenni, oggi lo lasciano nudo e povero sulla strada, privo in più di quei fondamenti, che erano la base della Civiltà Umana, che lo avrebbero potuto aiutare a risorgere.
Uomo, omologato ed assoggettato alla triade svegliati ora, prima che il nulla; sponsorizzato dal “Grande Fratello” ti anestetizzi del tutto.
Giorgio Bargna.

lunedì 24 marzo 2008

Riflessioni sulla politica


Pubblico l'ultimo mio testo presente, da qualche giorno, sul sito del Partito d'Azione Civica. Nei post a venire, diviso in diverse parti, proporrò un mio "inno" alla "Democrazia Partecipata". Buona lettura, Giorgio.

La nostra storia
Per anni nel nostro paese si è riusciti a lavorare con profitto e possibilità di migliorare ulteriormente, poi una classe politica (da definire perlomeno inetta) ha trasformato quello che viene definito "liberismo globalizzatore" in una sciagura. Sindacati compiacenti e classe politica tramite contratti di lavoro sciagurati (a termine, a favore solo delle imprese, privi di coperture sanitarie e pensionistiche, a favore solo dello "stato") hanno buttato alle ortiche anni di progresso realizzati dalle generazioni precedenti, nel campo del lavoro e del benessere sociale.
Qualcuno tra gli italiani, coloro che ancora non avevano capito che dx e sx erano facce della stessa medaglia, con l'avvento di Prodi nel 2006, pensò che fosse finita l'era del liberismo senza valori morali. Ma il centro-sinistra non si dimostrò per nulla diverso dalla "bieca" destra, anzi continuò la strada intrappesa da questa e affinò al meglio l'uso degli studi di settore (nati, invero, anni prima) in modo da poter taglieggiare al massimo i lavoratori autonomi ( e di conseguenza i loro dipendenti, il tutto con relative famiglie).
Con buona pace della Costituzione oggi le tasse vengono pagate su quanto stabilito da terzi e non sul reddito denunciato da produttore e consumatore. I veri evasori invece? Mai colpiti, avvantaggiati dalla "sciagurata" gestione dell'euro e liberi di praticare a loro piacimento economia e commercio, avvantaggiati da leggi predisposte.
Chi ha preceduto Prodi però, nei cinque anni avuti a disposizione, l'unica cosa che ha fatto con perfezione è stato il decreto (passato in esecuzione poi a Prodi) "salvaladri", che ha concesso di togliersi molti pensieri dalla testa a chi aveva pendenze con la giustizia. Il Polo delle Libertà ha,inoltre, ucciso ogni speranza di prosperità alla nostra nazione gestendo sciaguratamente la transizione dalla Lira all'Euro; nel solo periodo 2002-2003 il costo della vita è raddoppiato, 1000 lire= 1 euro, questo quando nel resto d'Europa si è intravvisto al massimo un assestamento di pochi centesimi.

Che speranza abbiamo per il futuro?
Alle nostre spalle il ricordo di una classe politica che in modo unito ha favorito, sia in recessione che in periodi di vacche grasse, l'industria, colpendo sempre invece con tasse e balzelli tutti gli altri; davanti a noi abbiamo una destra liber-berlusconista pronta ad aiutare amici di categoria e una sinistra che vive ancora di una cultura ottocentesca, che ha vissuto sino a ieri dell'antagonismo tra lavoratori autonomi e dipendenti, e che oggi scimmiotta il programma degli avversari.
Prego ogni sera che gli italiani capiscano che il sistema elettorale attuale non consente la libera scelta dei candidati, espressi dalle segreterie di partito, rendendosi così conto che non si può più parteggiare per partito preso, ma solo parteggiare per se stessi.
E' necessario dunque che ogni cittadino prenda atto che deve diventare protagonista delle scelte, partecipando in maniera diretta a quanto lo riguarda. E' giunta ormai l'ora in cui una nuova forma di governare doni la possibilità di una partecipazione continua dei cittadini nelle scelte fondamentali. Attraverso la Democrazia Partecipata (e Diretta), ogni cittadino DEVE contribuire nel governare il proprio paese, il proprio territorio. Al tempo della Rivoluzione Francese nacque un nuovo modo di intendere la democrazia, quello in cui i "Borghesi", i ricchi senza titoli nobiliari, potevano condizionare la politica delle scelte. Oggi è giunta l'ora di cambiare, che non siano solo alcuni a gestire, tutti devono oggi poter condividere e discutere, oltre che mettere in pratica, come governare la società! Tutto ciò è riconoscibile in una sola definizione: DEMOCRAZIA PARTECIPATA.
Giorgio Bargna.

mercoledì 19 marzo 2008

LOCALISMO E RAPPRESENTATIVITA'


Dopo essermi sottoposto a “lezioni di metapolitica”, da un amico blogger, provo a rispondere alle domande di un ipotetica “commissione esaminatrice”. Il tema: come “verticalizzare” partiticamente, la “orrizzontale” spinta della proposta di cambiamento popolare. Alla prossima, Giorgio.

Non c'è democrazia senza partito
Innanzi tutto non crediamo possibile che il ruolo del politico possa venire surclassato dalla pura e semplice partecipazione collettiva. Ritenere di gestire le società, rinnovarle e replicarle, alienando la necessità di un ruolo di comando e il conflitto politico, è sottovalutare la realtà dei fatti.
La partecipazione diretta è necessaria, insostituibile ed importante nelle prime fasi del nostro cambiamento, altrettanto anche in quelle successive alla nuova "situazione nascente", ma ogni movimento che spinge dal basso, se ha intenzione di sopravvivere e lasciare il proprio “marchio di fabbrica”, ha la necessità di strutturarsi in “soggetto fisico” di rappresentanza: una nuova e moderna forma di partito, come la nostra, nascente dal basso, all' ascolto perenne del cittadino, ma pronta anche a fornire “servizio” in una forma di democrazia rappresentativa.
Non riuscire a strutturare il movimento che nasce dal basso in partito, significherà lasciare questa spinta popolare nelle mani del potere politico dominante che, fingendo di assecondarla, alla fine la reprimerà. L'ingresso nell' arena politica rappresentativa di un soggetto “partitico-popolare”, contrarrà, civicamente, la possibile nascita di una deriva plebiscitaria, rischio di una democrazia diretta che prende troppo il sopravvento, e difenderà le istanze dei cittadini dalla reazione oligarchica.

Come colpire il nemico
Come movimento nascente dal basso ci viene spontaneo designare come nemico la classe politica, la ormai tragicamente famosa "casta”; ma quando poi dobbiamo cercare di gestire la rinascita, sottoforma di azione democratica, essere populisti risulta poco produttivo nel mondo della politica reale, li per gestire il potere nato dall' auspicata democrazia diretta, si deve necessariamente scendere a “compromesso” con un minimo di rappresentatività. Di contro il rischio è che la classe politica, sentendosi attaccata, reagisca subito, “remando contro”, utilizzando forme di risposta solo all' apparenza democratiche.
Pertanto il “localismo” deve fare un salto di qualità, se vuole contare politicamente; dal momento che un’unità politica, può tanto più garantire risultati economici e sociali, quanto più il suo potere è coerentemente organizzato. Insomma, le esperienze collettive dal basso, se tardano a verticalizzarsi, a lanciarsi verso l'alto, sono destinate a soccombere di fronte a entità politiche, direi, “verticalmente dinamicizzate”. Al nostro partito non potranno mancare la snellezza organizzativa e una linearità di comando che sia rapida e funzionale; le decisioni vanno prese velocemente, quando non vi è il tempo di una discussione “orrizzontale”.
Una forza politica che pratica in minoranza non ha scampo, come una Circe deve ipnotizzare, edulcorare e sfrontatamente aprire in due il cuore dell nemico, appena la situazione lo consente, per poi avventarcisisi sopra senza pietà, il tutto, ovviamente, in piena formula democratica.

Un rischio da evitare
Questa protesta che sta nascendo “dal basso” deve sforzarsi di crescere, conquistare il potere politico, ogni cittadino deve sforzarsi, essere un politico, capire l'importanza di trasformare la sua protesta in partito, partito nel vero senso della parola, quel partito che in queste pagine abbiamo già illustrato ampliamente. Un partito diverso, responsabile, democratico e partecipativo si, ma anche rappresentativo, perchè tutti non possiamo parlare insieme ogni volta, ma coloro di cui ci fidiamo, a volte, possono perorare la nostra causa, la nostra decisione.
Non vi è altra possibilità, un movimento popolare solo, senza rappresentanza politica, rischia di essere alienato, l' importante è non farsi rappresentare, ancora una volta, dalla casta.
Giorgio Bargna.

domenica 16 marzo 2008

Alain de Benoist: L' altro mondo


Pubblico parte di un testo estratto dall sito www.alaindebenoist.com , una seconda parte, in cui il pensatore francese parla dell' altromondismo dei no global, la potete leggere nel sito dell'autore. Io mi sono limitato alla parte illustrativa della situazione, quella parte che più mi interessava. Buona lettura e buon week-end, Giorgio Bargna.


L’ALTRO MONDO
di A.de Benoist (da “Eléments” 111, traduzione a cura di Simone Belfiori)

“Nessun mondo” scrive Philippe Muray, “è mai stato più detestabile di quello attuale”. Ma qual è dunque questo mondo? Dopo l’affondamento del sistema sovietico, si è passati da un mondo diviso in due blocchi a un mondo dominato da una sola potenza, che tenta di imporre la sua legge al pianeta intero. Virtualmente, questo mondo non sarebbe altro che un villaggio globale, dove il progresso economico, dal quale si suppone tutti possano trarre giovamento, accrescerebbe l'ineluttabile evoluzione verso un modello politico, la democrazia liberale rappresentativa, della quale gli Stati Uniti d’America costituirebbero il modello più completo. Alla fine, il mondo diverrebbe un vasto mercato popolato da semplici consumatori,sottomessi di volta in volta all'ordine marciante. Il capitalismo si è deterritorializzato. I raggruppamenti industriali infine hanno dato luogo alla formazione di società transnazionali, i cui bilanci superano di gran lunga quelli dei singoli paesi. Allo stesso tempo, le nazioni sono state invitate ad abolire le loro barriere doganali, ad aprire le loro frontiere alle persone ed ai capitali, a favorire con ogni mezzo la " libera circolazione " dei prodotti e dei beni. Questo è il senso primario di una globalizzazione che supporta la volatilità dei mercati, le delocalizzazioni, la ricerca permanente di una maggiore produttività, la reificazione generalizzata dei rapporti sociali. Questo sistema è fondato sulla trasformazione di tutte le attività viventi in mercantili. Il mercato non vale se non attraverso il denaro. Il denaro è l'equivalente generale che cela la natura reale degli scambi ai quali è preposto. Nel mondo del mercato, la legge suprema è la logica del profitto, legittimato da un’antropologia che fa dell’individuo un essere avente il cui obiettivo permanente è la massimizzazione del proprio interesse. La sottomissione progressiva di tutti gli aspetti della vita umana alle esigenze di questa logica destruttura il legame sociale. Essa genera una società puramente commerciale dove, come ha già affermato Pierre Leroux, gli “uomini non associati non sono soltanto estranei tra loro, ma necessariamente rivali e nemici”. Gli altri uomini dunque non sono percepiti se non attraverso il loro potere d'acquisto e la loro capacità di generare profitto, attraverso la loro attitudine a produrre a lavorare e
consumare. I media uniformano i desideri e le pulsioni, al prezzo di una radicale desimbolizzazione degli immaginari, produttori di una falsa coscienza, di una coscienza alienata. È esattamente questo il mondo in cui viviamo. Un mondo senza esteriori, che ha abolito le distanze e il tempo, dove il capitalismo finanziario non è connesso all'economia reale (la maggioranza degli scambi di capitale non corrispondono più agli scambi di prodotti), dove l'economia reale si sviluppa senza considerazione dei limiti, dove le passioni si riducono agli interessi, dove il valore è ribassato sul prezzo, dove i bambini stessi divengono dei beni (e degli utili) di consumo durevole, dove la politica è ridotta alla porzione congrua, dove i detentori di potere non sono più eletti e dove coloro che sono eletti sono impotenti. Un simile mondo non minaccia soltanto la vita interiore, le identità collettive, la diversità dei viventi. Esso minaccia l'umanità propria dell’uomo. Per contrapporsi alla miseria affettiva ed agli stress materiali che ne risultano, la Forma-Capitale usa strategie differenti. Da un lato, crea senza interruzione nuovi bisogni, moltiplica le distrazioni e i divertimenti, propaga l'idea che non esista felicità se non in un consumo il cui orizzonte è continuamente riposto più lontano. Dall’altro lato, il suo pretesto di lottare contro il “populismo”, il “comunitarismo”, il “terrorismo”, rafforza le procedure di controllo e di sorveglianza. Si restringono le libertà con il pretesto della sicurezza. Si instaura la “democrazia delle bocche cucite”, per dirla con Paul Thibaud. Per smorzare la portata dei movimenti sociali, per distogliere la gente dal porsi domande, per disarmare le nuove “classi pericolose” e rendere inoperante la loro velleità di rivolta, crea nemici onnipresenti, demonizzabili a piacimento, strumentalizza i conflitti culturali e gli urti tra comunità. Come sempre, si divide percomandare. L'obiettivo è quello di instaurare tutto ciò che crea caos per continuare a regnare senza alcuna minaccia. (....)

lunedì 18 febbraio 2008

CONGRESSO DI "LAVORI IN CORSO"

Si è tenuta ieri, presso il Centro Civico di Vighizzolo di Cantù, la prima sessione del I° Congresso di “Lavori in Corso”. La sessione si è articolata in due parti.
Il mattino si è discussa democraticamente, il tutto è durato più di tre ore, la Carta dei Principi (appena avrò il file la pubblicherò), alla quale, con partecipazione accorata di tutti, si sono apportate parecchie modifiche dovute ad un necessario aggiornamento.
Nel pomeriggio si sono tenuti gli interventi di tipo politico, tra essi spicca quello di Claudio Bizzozero (leader indiscusso). Claudio, tra le altre cose, ritenendo che ormai non ci si possa più fermare alla sola politica cittadina, ha invitato il movimento a federarsi con il nascente “Partito d'Azione Civica”, visto che comunque questo nuovo partito nasce proprio dall'esperienza di “Lavori...” e si richiama agli stessi principi , oltre che annoverare tra i fondatori molti iscritti della Coalizione Civica canturina (anche di questo intervento appena possibile vi posterò).
Tra due domeniche si terrà la seconda sessione, che prevede tra l'altro: la discussione sullo statuto, il voto sugli interventi (quelli che il voto stesso richiedono) e la elezione della Segreteria e delle altre cariche sociali.
Vi allego nel frattempo il mio intervento.
Buona lettura, Giorgio.



“La politica dell’ascolto che parte dal basso e raccoglie le istanze delle persone, contrapposta a chi, dall’alto si accorda e, dall'alto decide.”
Questa frase è l'essenza dell'essere di “Lavori in Corso”,quanto descritto in questa frase è ciò che ci differenzia,e sempre ci differenzierà da ogni altra fazione politica.
Effettivamente il risultato raggiunto durante le ultime consultazioni amministrative oggi ci obbliga a fare sul (e consentitemi il termine) serio.
Abbiamo oggi l'obbligo di una linea programmatica stabilita in un luogo deputato a farlo con ufficialità, l'obbligo di stabilire come attuare questa linea e l'obbligo di stabilire anche dei responsabili, possibilmente,per ogni settore.
Io ho avuto la fortuna, preparando questo congresso, di partecipare ai lavori di due commissioni (chiamo così anche la seconda): quella che si è occupata della revisione dello statuto e quella (ne ho un cruccio, non è stata una commissione, ma un lavoro personale) che si è occupata della Partecipazione Popolare.
Le due strade si sono incrociate nell'attimo in cui io e Fabio abbiamo deciso di istituzionalizzare le liste di quartiere, introducendole ufficialmente nel preambolo allo statuto.

Ma in questo intervento soffermiamoci alla sola Partecipazione Popolare, a decidere se farne un reale punto di forza, a decidere su quale forma deve plasmarsi e non in ultimo se cercare di portarla in essere da soli, o cercare contributo anche da altre forze politiche locali.

Perchè parlare di Partecipazione Popolare?
Perchè se io adesso affermassi “Alzi la mano chi non si dichiara democratico”, avessi davanti mille persone, credo che potrei vedere una platea di mani incrociate. Spesso, però, dietro alle singole parole esiste un significato che scompare, con l'uso quotidiano e non ragionato dei termini. Basterebbe un dizionario per comprendere una cosa molto importante: noi non viviamo e non stiamo appoggiando una vera democrazia. In un momento nel quale si cerca di esportare la democrazia, come fosse un prodotto commerciale, addirittura, in alcuni casi, con l'uso della forza militare, si è totalmente perso il suo significato.
Fatto salvo qualche caso sporadico, il cittadino viene coinvolto solo per le elezioni, momento in cui i candidati cercano consensi nelle maniere più insensate possibili. Promettendo progetti irrealizzabili, facendo bassa demagogia, dicendo frasi brevi e senza senso, che vengano trasportate da bocca in bocca, come un assurdo gioco del telefono, per raccogliere voti.Un cittadino interessato alla vita politica vale un voto, una piazza è un grosso insieme di voti, un programma televisivo rappresenta un potenziale potentissimo di firme.
Ma si può considerare una croce su un foglio, basata su considerazioni da slogan, una partecipazione politica? I cittadini partecipano alla vita politica? Se chiedete ad una persona qualsiasi, presa a caso, se è un politico, risponderà affermativamente?
Se la risposta a questa serie di domande è sempre no, e siete convinti di quello che state pensando, allora allo stesso tempo state anche affermando che in questo momento non viviamo una vera e propria democrazia, quindi, sarà bene sistemarla, rattopparla e darle un senso.

Perchè dare un senso alla democrazia e conseguentemente alla politica?
Perchè la democrazia e la politica sono l'arte della decisione, del bene comune, e per esserlo devono nutrirsi necessariamente del pluralismo degli attori presenti nell'arena e dei loro punti di vista. La democrazia nella nostra ottica non può essere che un campo d'azione dove la reciprocità è legge, prassi, dove non esiste il contrasto tra pubblico e privato, non esiste uno scontro tra varie categorie di attori, ma esiste un “luogo” dove uomini e organizzazioni (istituzioni,associazioni culturali e religiose,sindacati, rappresentanti di varie categorie, etc. etc.) appaiono gli uni alle altre sullo stesso livello agendo e decidendo in comune. Questa democrazia è dunque il luogo del faccia a faccia. Li si regolano le questioni comuni, si trovano le soluzioni, si evitano gli scontri frontali.

Chiudiamo ora però con la filosofia e parliamo dunque di questo possibile punto di forza e vediamo se è il caso di condividerlo con altri.

Credo, personalmente, che dovremo qui votare su quale strada scegliere, innanzitutto; poi col tempo la potremo perfezionare, e poi decidere, con calma, se è meglio percorre la strada da soli o cercare compagnia.
Io vedo tre possibili alternative,significativamente diverse tra loro,vediamole e specifichiamole dove serve:

1)Quanto lo statuto comunale già ci offre.
L'art.3 del Titolo I recita così: Il Comune promuove, facilita e garantisce la partecipazione alla vita pubblica locale dei cittadini italiani, dell’Unione Europea e stranieri regolarmente soggiornanti, anche su base di quartiere o di frazione, alla realizzazione della politica comunale nei modi previsti dallo statuto e dai regolamenti.
Ma sinceramente abbiamo,credo e correggetemi se sbaglio,visto ben poco di questo sinora.
Poi in linea di massima dice pure:
“Il comune promuove e tutela la partecipazione dei cittadini, singoli o associati, all’amministrazione dell’ente al fine di assicurare il buon andamento, l’imparzialità e la
trasparenza.”
“La partecipazione popolare si esprime attraverso l’incentivazione delle forme associative e di volontariato e il diritto dei singoli cittadini a intervenire nel procedimento amministrativo.”
“Il consiglio comunale predispone e approva un regolamento nel quale vengono definite le modalità con cui i cittadini possono far valere i diritti e le prerogative previste dal presente capo.”
Tutto,credo,disatteso;anzi la nostra amministrazione ha ribaltato anche i risultati di un referendum.
Io di conseguenza dubito che potremo seguire una linea che ci porti alla realizzazione effettiva della Partecipazione Popolare basandoci su articoli dove l'amministrazione ha un potere decisionale quasi esclusivo.

2)Quali spunti ci offre la legislazione
Il nuovo art.118 della costituzione,superando le specificazioni effettuate dall'ordinamento del 1990 ha stabilito che i comuni,le province e le città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale,secondo le rispettive competenze.Stato,regioni,città metropolitane,province e comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale,sulla base del principio di sussidiarietà.
Ispirandoci a questa specifica noi oggi potremmo, ed il ruolo di forza di minoranza ci tutela in questo, impegnarci nell'organizzare qualcosa che si avvicini alla Partecipazione Popolare, ma comunque non di istituzionalizzato.
Mi spiego, potremmo organizzare Comitati di Quartiere che si riuniscono in Assemblee di Quartiere per discutere dei problemi del Territorio (che magari l'amministrazione sfugge), per poi organizzare tramite esse istanze, petizioni e quant'altro.
Dubito però che anche questa strada, che rischia di diventare un muro contro muro, porti a raccogliere risultati fruttuosi.

3)Un progetto da condividere
Per parlare seriamente di Partecipazione Popolare all'interno di un ambito comunale ed oltre occorre, a mio vedere, che quante più forze politiche presenti sul territorio siano interessate.
Per arrivare a questo occorre preparare almeno una bozza di progetto su cui discutere (io vi ho allegato una mia, dalla quale (non necessariamente) magari prendere spunto e cominciare a sondare se, tra le forze presenti, vi sia interesse altrui. Raggiungendo una certa unione di intenti si può provare ad inserire nello Statuto Comunale la vera Partecipazione Popolare.
Si potrebbe, una volta sviluppato un serio progetto, presentarlo in Consiglio Comunale e tentare di forzare la mano. Questa strada non credo sia ricca di fruttuosi risultati, ma ci consentirebbe di mettere con le spalle al muro l'attuale maggioranza, soprattutto chi tra loro dichiara di essere vicino ai cittadini; ci consentirebbe anche di valutare quelle che sono le reali intenzioni del resto dell' opposizione (la sinistra tanto per essere chiari): centralisti (come io credo) o dalla parte del cittadino.

4)Prepariamoci, in attesa di essere forza di governo
Abbiamo anche la via alternativa dell' attesa, dell'attesa di essere forza di governo. Sfruttare quindi gli anni che mancano alle prossime elezioni amministrative per approntare quello che ci manca: un serio progetto di Partecipazione Popolare. Dico serio perchè, sinceramente, ad ora, all'interno del nostro movimento un progetto su questo argomento io non lo ho ancora trovato!Poco più di un anno fà Sabrina Russo, all' uscita da una Messa domenicale, mi offriva un depliant informativo di “Vighizzolo Insieme”, all' istante aveva fatto la fine di ogni materiale informativo che ricevo (la tasca del giaccone) , poi dopo un paio di giorni me lo sono letto, e parlava di democrazia partecipata. Questa è stata la molla che è scattata e che mi ha portato verso “Lavori in Corso”, maaa...sinceramente...fin dalle prime riunioni sono rimasto un pò sconcertato: si parlava dei “Gruppi di Lavoro” alle riunioni generali (ed erano parecchi i gruppi), ma di un gruppo che si occupasse di questo tema ho notato subito la mancanza, e anche quando mi sono messo di mia iniziativa a svilupparne uno (malgrado l' abbia pubblicizzato) nessuno si è unito. Oggi, dopo un anno, devo essere sincero, noto ancora un certo disinteresse verso l'argomento, tanto che la commissione auspicata che doveva occuparsi di questo argomento non ha mai visto nemmeno i germogli.

In conclusione
Alla fine di questo intervento non mi rimane che esplicitare quanto da me auspicato:
1)decidere con voto, se accontentarci di quanto le istituzioni ci offrono in tema di Partecipazione Popolare o se prendere la via di un nostro progetto, serio ed articolato
2)decidere, con un secondo voto, se tenere il tutto per noi o coinvolgere le altre forze presenti nel Consiglio Comunale
Sarò sincero, nella votazione che riguarda il secondo punto,qualsiasi esito mi soddisferà; ma per quanto riguarda la prima votazione no! Il ritrovarmi in un movimento che rifiuta di progettare con serietà la Partecipazione Popolare dei Cittadini alle scelte istituzionali, sia votando no al primo quesito, sia non partecipando in massa allo sviluppo di questo progetto, mi porterà ad allontanarmi dal movimento stesso, causa l' inesistenza del motivo che ad esso mi ha fatto avvicinare. Scusate il tono polemico ma, senza il tanto ventilato “Federalismo Municipale”, la nostra Coalizione risulta un movimento eguale agli altri e quindi, secondo me, inutile. Ed ancor di più inutile risulterebbe, consentitemi questa variazione di tema, oggi, visto che nei prossimi giorni si costituirà ufficialmente il Partito d'Azione Civica, movimento che nasce anche sotto la spinta di un' ala numericamente consistente del nostro movimento, quell'ala che si riconosce con forza nella Democrazia Diretta e Partecipata. Ma di questo ne ha già parlato dettagliatamente Claudio.
Grazie per avermi ascoltato con pazienza.
Giorgio Bargna.