venerdì 23 settembre 2016

La Nuova destra (III)



Continuiamo ad iilustrare il "Cartello Politico" de "La Nuova Destra" sempre attraverso quanto ho trovato, scritto da Alain de Benoist e Charles Champetier su "DIORAMA LETTERARIO" - Numero 229-230 (ottobre-novembre 1999). Buona lettura, Giorgio.








II. Fondamenti
"Conosci te stesso", diceva la massima delfica. La chiave di ogni rappresentazione del mondo, di ogni impegno politico, morale o filosofico risiede prima di tutto in un’antropologia. Le nostre azioni su compiono del resto attraverso certi ordini della prassi, che rappresentano altrettante essenze delle relazioni degli uomini fra di loro e con il mondo: il politico, l’economico, la tecnica e l’etica.

1. L’uomo: un momento del vivente
La modernità ha negato l’esistenza di una natura umana (teoria della tabula rasa) oppure l’ha rapportata a dei predicati astratti sconnessi dal mondo reale e dall’esistenza vissuta. A prezzo di questa rottura radicale è emerso l’ideale di un "uomo nuovo", malleabile all’infinito tramite la trasformazione progressiva o brutale del suo ambiente. Questa utopia è sfociata nelle esperienze totalitarie e nei sistemi concentrazionari del XX secolo. Nel mondo liberale, si è tradotta nella credenza superstiziosa nell’onnipotenza dell’ambiente, che ha generato non meno delusioni, in particolare nell’ambito educativo: in una società strutturata dall’uso della razionalità astratta, sono infatti le capacità cognitive a costituire il principale elemento di determinazione dello status sociale. L’uomo è innanzitutto un animale e come tale si colloca nell’ordine del vivente, la cui durata si misura in centinaia di milioni di anni. Se si compara la storia della vita organica a una giornata di 24 ore, l’apparizione della nostra specie interviene soltanto negli ultimi trenta secondi. Il processo di
ominizzazione si è svolto lungo parecchie decine di migliaia di generazioni. Nella misura in cui la vita si espande prima di tutto per trasmissione dell’informazione contenuta nel materiale genetico, l’uomo non nasce come una pagina bianca: ciascuno di noi è già portatore delle caratteristiche generali della nostra specie, alle quali si aggiungono predisposizioni ereditarie a certe attitudini particolari e a certi comportamenti. L’individuo non decide questa eredità, che ne limita l’autonomia e la plasticità ma gli permette anche di resistere ai condizionamenti politici e sociali. 

L’uomo però non è soltanto un animale: ciò che vi è in lui di specificamente umano – coscienza della propria coscienza, pensiero astratto, linguaggio sintattico, capacità simbolica, attitudine alla constatazione oggettiva e al giudizio di valore – non contraddice la sua natura, ma la prolunga, conferendole una dimensione supplementare ed unica. Negare le determinazioni biologiche dell’uomo o ridurlo ad esse riconducendone i tratti specifici alla zoologia sono dunque due atteggiamenti egualmente assurdi. La componente ereditaria della nostra umanità forma soltanto lo zoccolo della nostra vita sociale e storica: dato che i suoi istinti non sono programmati nel loro oggetto, l’uomo è sempre titolare di una parte di libertà (deve fare delle scelte sia morali che politiche) il cui unico vero limite naturale è la morte. L’uomo è prima di tutto un erede, ma può disporre della sua eredità. Noi ci costruiamo storicamente e culturalmente sulla base dei presupposti della nostra costituzione biologica, che sono il limite della nostra umanità. Ciò che sta al di là di questo limite può essere chiamato Dio, cosmos, nulla o Essere: la questione del "perché" non vi ha più alcun senso, giacché ciò che si trova al di là dei limiti umani è, per definizione, impensabile.
La Nuova Destra propone dunque una visione dell’uomo equilibrata, che tenga conto nel contempo dell’innato, delle capacità personali e dell’ambiente sociale. Essa rifiuta le ideologie che mettono abusivamente l’accento su uno solo di questi fattori di determinazione: biologico, economico o meccanico che sia.

2. L’uomo: un essere radicato, a rischio e aperto
L’uomo non è per natura né buono né cattivo, ma è capace di essere l’uno o l’altro. Da questo punto di vista è un essere aperto e "a rischio", sempre suscettibile di oltrepassarsi o di degradarsi. Le regole sociali e morali, così come le istituzioni e le tradizioni, permettono di scongiurare questa minaccia permanente, facendo sì che l’uomo si impegni a costruirsi nel riconoscimento delle norme che fondano la sua esistenza conferendole senso e punti di riferimento. L’umanità, definita come l’insieme indistinto degli individui che la compongono, designa o una categoria biologica (la specie), o una categoria filosofica scaturita dal pensiero occidentale. Dal punto di vista socio-storico, l’uomo in sé non esiste, perché l’appartenenza all’umanità è sempre mediata a una particolare appartenenza culturale. Questa constatazione non è un portato del relativismo. Tutti gli uomini hanno in comune la natura umana, senza la quale non potrebbero capirsi, ma la loro comune appartenenza alla specie si esprime sempre a partire da un contesto particolare. Essi condividono le stesse aspirazioni essenziali, che si cristallizzano però sempre in forme differenti, a seconda delle epoche e dei luoghi. L’umanità, in questo senso, è irriducibilmente plurale: la diversità fa parte della sua stessa essenza. La vita umana si colloca necessariamente all’interno di un contesto che precede il giudizio, foss’anche critico, che gli individui e i gruppi esprimono sul mondo, e modella tanto le aspirazioni quanto la finalità che sono loro proprie: nel mondo reale esistono soltanto persone concretamente situate. Le differenze biologiche non sono, in sé, significative se non in riferimento a dati culturali e sociali. 

Quanto poi alle differenze tra le culture, esse non sono né l’effetto di un’illusione né caratteristiche transitorie, contingenti o secondarie. Le culture hanno tutte un proprio "centro di gravità", come lo definiva Herder: culture diverse danno risposte diverse ai quesiti essenziali. Per questo ogni tentativo di unificarle finisce col distruggerle. L’uomo si colloca per natura nel registro della cultura: essere caratterizzato dalla singolarità, si situa sempre all’interfaccia tra l’universale (la sua specie) e il particolare (ciascuna cultura, ciascuna epoca). L’idea di una legge assoluta, universale ed eterna, chiamata a determinare in ultima istanza le nostre scelte morali, religiose o politiche appare dunque priva di fondamento. Tale idea è alla base di tutti i totalitarismi.
Le società umane sono nel contempo conflittuali e comunicative, senza che si possa estendere una di queste caratteristiche a beneficio dell’altra. La fede irenica nella possibilità di far scomparire gli antagonismi in seno a una società riconciliata e trasparente nei confronti di se stessa non ha più validità della visione iperconcorrenziale (liberale, razzista o nazionalista) che fa della vita una perpetua guerra tra individui o gruppi. Se anche l’aggressività è parte integrante dell’attività creativa e della dinamica della vita, l’evoluzione ha favorito nell’uomo l’emergere di comportamenti cooperativi (altruistici) che non sempre vengono tenuti nella sola sfera della sua parentela genetica. D’altro canto, le grandi costruzioni storiche hanno potuto durare solo stabilendo un’armonia fondata sul riconoscimento di beni comuni, sulla reciprocità fra diritti e doveri, sul mutuo soccorso e sulla suddivisione. Né pacifica né bellicosa, né buona né cattiva, né bella né brutta, l’esistenza umana si svolge in una tensione tragica fra questi poli attrattivi e repulsivi.

3. La società: un corpo di comunità
L’esistenza umana è indissociabile dalle comunità e dagli insiemi sociali nei quali si colloca. L’idea di uno "stato di natura" primitivo in cui avrebbero coesistito individui autonomi è una pura finzione: la società non risulta da un contratto che gli uomini sottoscrivono con l’obiettivo di massimizzare il proprio interesse, bensì da un’associazione spontanea la cui forma più antica è sicuramente la famiglia allargata.
Le comunità nelle quali si incarna lo stato sociale disegnano un tessuto complesso di corpi intermedi situati fra l’individuo, i gruppi di individui e l’umanità. Alcune di esse sono ereditate (native), altre vengono scelte (cooperative). Il legame sociale, del quale la vecchia destra non è mai stata capace di riconoscere l’autonomia e che non si confonde affatto con la sola "società civile", si definisce in primo luogo come un modello per le azioni degli individui, non come l’effetto globale di tali azioni; si fonda su un consenso condiviso verso questa anteriorità del modello. L’appartenenza collettiva non annulla l’identità individuale, ma ne costituisce la base: quando si abbandona la comunità di origine, in genere lo si fa per raggiungerne un’altra. Native o cooperative, le comunità hanno tutte come fondamento la reciprocità. Le comunità si costruiscono e si conservano nella certezza, provata da ciascuno dei loro componenti, che tutto ciò che viene richiesto a loro può e deve essere richiesto anche agli altri. Reciprocità verticale dei diritti e dei doveri, della contribuzione e della redistribuzione, dell’obbedienza e dell’assistenza; reciprocità orizzontale dei doni e dei controdoni, della fraternità, dell’amicizia, dell’amore. La ricchezza della vita sociale è proporzionale alla diversità delle appartenenze che propone: tale diversità è continuamente minacciata per difetto (conformizzazione, indifferenziazione) o per eccesso (secessione, atomizzazione). 

La concezione olista, secondo la quale il tutto eccede la somma delle sue parti e possiede qualità che gli sono proprie, è stata combattuta dall’individualismo universalistico moderno, che ha associato la comunità alla gerarchia subita, alla chiusura o allo spirito di campanile. Questo individualismo universalistico si è manifestato nelle due figure del contratto (politico) e del mercato (economico). Ma, in realtà, la modernità non ha liberato l’uomo affrancandolo dalle antiche appartenenze familiari, locali, tribali, corporative o religiose. Non ha fatto altro che assoggettarlo ad altre costrizioni, più dure perché più lontane, più impersonali e più esigenti: una soggezione meccanica, astratta ed omogenea ha preso il posto dei multiformi contesti organici. Diventando più solitario, l’uomo è diventato anche più vulnerabile e più sguarnito. Si è distaccato dal senso perché non può più identificarsi in un modello, perché per lui non ha più senso porsi dal punto di vista del tutto sociale. L’individualismo è sfociato nella perdita di affiliazioni e nella messa in disparte, nella crisi delle istituzioni (la famiglia, ad esempio, non socializza più) e nella captazione del legame sociale da parte delle burocrazie statali. Al momento del bilancio, il grande progetto di emancipazione moderno può essere analizzato come un’alienazione su grande scala. Dato che tendono a radunare individui che si sentono estranei gli uni agli altri e non manifestano più alcuna fiducia reciproca, le società moderne non possono ipotizzare alcun rapporto sociale che non sia sottomesso ad un’istanza "neutrale" di regolamentazione. Le cui forme pure sono lo scambio (sistema mercantile della legge del più forte) e la sottomissione (sistema totalitario di obbedienza all’onnipotente Stato centrale). La forma mista che va attualmente affermandosi si traduce in una proliferazione di regole giuridiche astratte che passano gradualmente al setaccio ogni aspetto dell’esistenza, in modo tale che il rapporto con gli altri diventa oggetto di un controllo permanente, mirante a scongiurare la minaccia di implosione. 

Soltanto il ritorno alle comunità e alle aggregazioni politiche di dimensioni umane permetterà di rimediare all’emarginazione, alla dissoluzione del legame sociale, alla sua reificazione e alla sua giuridicizzazione.

4 Il politico: un’essenza e un’arte
Il politico è legato al fatto che le finalità della vita sociale sono sempre molteplici. Possiede un’essenza e leggi proprie, che non sono riducibili né alla razionalità economica né all’etica, né all’estetica, né alla metafisica, né al sacro. Presuppone che vengano distinte e accettate nozioni come quelle di pubblico e privato, comando e obbedienza, deliberazione e decisione, cittadino e straniero, amico e nemico. Se vi è una morale in politica – dal momento che l’autorità punta al bene comune e si ispira alla norma composta dai valori e dalle abitudini della collettività al cui interno viene esercitata –, ciò non significa per questo che una morale individuale sia politicamente applicabile. I regimi che rifiutano di riconoscere l’essenza del politico, che negano la pluralità dei fini o che favoriscono la spoliticizzazione, sono per definizione "impolitici". 

Il pensiero moderno ha sviluppato l’idea illusoria di una "neutralità" della politica, riducendo il potere all’efficacia amministrativa, all’applicazione meccanica di norme giuridiche, tecniche o economiche: il "governo degli uomini" avrebbe dovuto essere ricalcato sull’"amministrazione delle cose". Ma la sfera pubblica è tuttora il luogo di affermazione di una visione particolare della "vita buona". Da questa concezione che ci si fa del bene discende l’idea di ciò che è giusto, e non l’inverso.
Il primo scopo di ogni azione politica è, all’interno, far regnare la pace civile, ovvero la sicurezza e l’armonia fra i componenti della società, e all’esterno proteggerli dalle minacce. In rapporto a tale scopo, la scelta che viene operata tra valori in concorrenza (maggiore libertà, eguaglianza, unità, diversità, solidarietà, ecc.) contiene necessariamente in sé una componente di arbitrarietà: non si dimostra, ma si afferma e si giudica sulla base dei risultati. La diversità tra le visioni del mondo è una delle condizioni che consentono al politico di emergere. La democrazia, dal momento che riconosce il pluralismo delle aspirazioni e dei progetti e mira ad organizzarne il confronto pacifico a tutti i livelli della vita pubblica, è un regime eminentemente politico. Sotto questo profilo, è preferibile alle classiche confische della legittimità da parte del denaro (plutocrazia), della competenza (tecnocrazia), della legge divina (teocrazia) o dell’eredità (monarchia), ma altresì alle forme più recenti di neutralizzazione del politico attraverso la morale (ideologia dei diritti dell’uomo), l’economia (globalizzazione mercantile), il diritto (governo dei giudici) o i media (società dello spettacolo). Se l’individuo come persona si mette alla prova all’interno di una comunità, come cittadino si costruisce nella democrazia, unico regimo che gli offre la partecipazione alle discussioni e alle decisioni pubbliche, nonché l’eccellenza attraverso l’educazione e la costruzione di sé.
La politica non è una scienza, abbandonata alla ragione o al solo metodo, bensì un’arte, che esige in primo luogo la prudenza. Essa implica sempre un’incertezza, una pluralità di scelte, una decisione sulle finalità. L’arte di governare conferisce un potere di arbitrato fra le possibilità, congiunto ad una capacità di costrizione. Il potere è sempre soltanto un mezzo, che vale esclusivamente in funzione delle finalità a cui si suppone serva. 

In Jean Bodin, erede dei legisti, la fonte dell’indipendenza e della libertà risiede in una illimitata sovranità del potere del principe, concepita sul modello del potere assolutistico papale. Questa concezione è quella di una "teologia politica" fondata sull’idea di un organo politico supremo, un "Leviatano" (Hobbes) che si presume controlli i corpi, le menti e le anime. Essa ha ispirato lo Stato nazionale assolutista, unificato, centralizzato, che non sopporta né i poteri locali né la condivisione del diritto con poteri territoriali vicini e si crea tramite l’unificazione amministrativa e giuridica, l’eliminazione dei corpi intermedi (accusati di essere delle "feudalità") e il progressivo sradicamento delle culture locali. Ed è progressivamente sfociata nell’assolutismo monarchico, nel giacobinismo rivoluzionario e poi nei moderni totalitarismi; ma anche nella "Repubblica senza cittadini", dove non esiste più niente tra la società civile atomizzata e lo Stato amministrativo. A questo modello di società politica la Nuova Destra oppone quello, ereditato da Altusio, in cui la fonte dell’indipendenza e della libertà risiede nell’autonomia e lo Stato si definisce innanzitutto come una federazione di comunità organizzate e di molteplici lealtà. 

In questa concezione, che ha ispirato le costruzioni imperiali e federali, l’esistenza di una delega al sovrano non fa mai perdere al popolo la facoltà di fare o di abrogare le leggi. Il popolo, nelle sue
diverse collettività organizzate (o "stati") è l’unico detentore ultimo della sovranità. I governanti sono superiori a qualunque cittadino preso individualmente, ma rimangono sempre inferiori alla volontà generale espressa dal corpo dei cittadini. Il principio di sussidiarietà si applica a tutti i livelli. La libertà di una collettività non è in antinomia con una sovranità condivisa. L’ambito del politico, infine, non si riduce allo Stato: la persona pubblica si definisce come uno spazio pieno, un tessuto continuo di gruppi, famiglie, associazioni, collettività locali, regionali, nazionali o sovranazionali. Il politico non consiste nel negare questa continuità organica, ma nel basarsi su di essa. L’unità politica discende da una diversità riconosciuta; in altre parole, deve venire a patti con una certa "opacità" del sociale: la perfetta "trasparenza" della società nei confronti di se stessa è un’utopia che non incoraggia la comunicazione democratica, ma, al contrario, favorisce la sorveglianza totalitaria.

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