Sono decenni che ci viene raccontata la favoletta della crescita economica, oggi, se abbiamo gli occhi ben funzionanti, tutti ne possiamo ammirare la polverizzazione. La politica, ops, i partiti (che dicono di volerla rappresentare) sono i galoppini di grande commercio, finanza ed industrie di ogni settore, dall’autotrasporto alle armi, ognuna col proprio tornaconto sia economico che di potere.
Il “sistema” ormai è imploso su se stesso e va sostituito, non aspettiamoci le risoluzioni dai sopraccitati, uno per logica, due perché chi ha causato un male così grosso non potrà mai essere chi ne possa trovare la cura, va estirpato il male partendo dalla radice e nuovi semi vanno impiantati.
Del pollice verde occorrente per questo innesto ne potrà godere solamente una “fratellanza sociale” composta da movimenti non lottizzati, da cittadini partecipi, associazioni territoriali e da piccoli imprenditori già attivi o prossimi alla nascita.
La ricetta? Sostenibilità e quanto Maurizio Pallante definisce “decrescita selettiva” della produzione.
Ne ho scritto più (e più) volte, produzione, commercio, consumo ed occupazione debbono essere di natura prettamente locale, territoriale, possibilmente partecipativa.
Già da anni con lo scoppio della bolla immobiliare praticamente ogni articolo non alimentare si è ritrovato in crisi.
Se vogliamo risollevarci un ruolo fondamentale l’edilizia dovrà ancora averlo, si tratterà però più di urbanizzazione selvaggia ma di una riconversione energetica. La ristrutturazione dell’esistente, portato ad una classificazione energetica di massimo livello, esprime un’economia virtuosa che salvaguarda il lavoro (qualificandolo, peraltro) ed i fatturati, aggiungendovi anche svariati vantaggi ecologici, già il solo abbattimento delle spese di riscaldamento ripagherebbe, intelligentemente, la spesa affrontata. interamente finanziati dal risparmio stesso”.
All’inizio accennavo all’industria dei mezzi stradali, ormai tutti ne possediamo uno e ci stiamo soffocando coi gas di scarico, meglio riconvertire parte di questa industria verso nuove forme di approvvigionamento elettrico e spostare il meno possibile cose e persone. Bisogna boicottare tramite i piccoli gesti della nostra vita la grande distribuzione, che è costosissima, e puntare su prodotti più o meno di natura biologica, ma locali …. meno traffico ed inquinamento e maggiore tutela del territorio.
Oggi, ormai, il cane a forza di mordersi la coda è arrivato al sedere. La concorrenza ha spinto le aziende a produrre sempre più velocemente, le tecnologie moderne dalle grandi performance hanno ridotto di molto la forza lavoro umana, la delocalizzazione della produzione ha creato disoccupazione … la conseguenza: meno redditi, meno domanda, consumi in crisi ed un debito che di logica dilaga, oltretutto senza una sovranità monetaria nazionale con tutte le conseguenze che stiamo pagando.
Scrive Matteo Pucciarelli su Micromega: “C’è stato un anno, il 2012, che ci ha spiegato diverse cose. E ci ha detto che (…)c’è stato un governo sostenuto da centrosinistra e centrodestra che in un perfetto clima civile e sobrio ha fatto fuori l’articolo 18, ha varato l’ennesima riforma delle pensioni lasciando senza lavoro e senza pensione decine di migliaia di persone, ha tolto solo a chi ha sempre pagato, non ha fatto nulla per i giovani, non ha toccato i grandi patrimoni e i privilegi della Chiesa, ha tagliato il pubblico e non ha tagliato le spese militari. Un governo col bon ton, ma neo-liberista e classista, che ha inserito l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione. Tradotto, altri tagli indiscriminati. E dove, se non nel pubblico?”
Nel frattempo il debito pubblico si è ampliato, la disoccupazione si è ingrandita, il Pil si è inabissato, l’inflazione è aumentata, i salari sono scesi, i contratti di lavoro sono capestri. In questa logica non si deve più scegliere tra rosso o nero, entrambi sono vessatori, al servizio dei poteri forti: fingono di dividersi su come ridistribuire la ricchezza, ma in realtà, come scrive Maurizio Pallante: “è ormai sostanziale la convergenza, da destra a sinistra, sulla scelta di scaricare sulle classi popolari e sul ceto medio i costi del rientro dal debito pubblico e di rilanciare la crescita attraverso la mercificazione dei beni comuni e un programma di grandi opere”.
Come scrivevo qualche riga più su occorre la nascita di una “fratellanza sociale”composta da movimenti non lottizzati, da cittadini partecipi, associazioni territoriali e da piccoli imprenditori … le piccole aziende e gli artigiani rappresentano la grande massa della forza produttiva italiana, un valore già grande di per se, ma inquinato dalle logiche della iperproduzione e del consumo premeditato, che può divenire valore inestimabile se si crea una rete territoriale di scambi commerciali ravvicinati, a contatto diretto con gli acquirenti.
Occorre convincersi che i partiti e le altre associazioni “castizzate” sono fenomeni da cancellare ed attivarsi, dal basso, ad assalire una crisi che come scrive Pallante “non è solo economica e ambientale, ma una vera e propria crisi di civiltà”.
Giorgio Bargna
giovedì 13 dicembre 2012
Nuovi semi
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mercoledì 24 ottobre 2012
Federalismo e sostenibilità
Non sono certo un filosofo,
neppure uno studioso, cerco semplicemente di vedere il mondo dalla mia
angolatura a tratti anarchica, a tratti autonomista, a tratti comunitaria.
Nell’insieme della mia visione non posso esimermi dal trattare temi quali
possono essere l’autogoverno, il rapporto reciproco tra partecipazione e
progettualità sociale, governo anticentralista fenomeno proprio del municipalismo
e del federalismo municipale. Analizziamo l’angolazione del federalismo
municipale, del suo significato strategico nella possibilità di governare dal
basso il paese nel contesto della geografia politica e sociale di un
amministrazione decentrata, descrivendone soprattutto dei comuni e delle loro
reti.
Mettiamo in chiaro, filosofi o
no che possiamo essere, il programma di governo locale non può essere il
prodotto da un istituzione centralista che risiede in un luogo
“extraterritoriale”.
Il cantiere, la fucina, esiste
già nei territori, e viene prodotto da una sinergia che incorpora quella
relazione tra istituzioni locali e società civile che produce quel programma
vivente incarnato dai cittadini, dalle istituzioni locali, sperimentato già in
percorsi partecipativi ed istituzionali di base, nell’autogoverno dal basso.
In anni recenti, anni
simboleggiati dal “federalismo della devolution”, dal potere dei governatori
accompagnato dal “premierato forte”, disegno della destra italiana,
profondamente neocentralista, statalista e autoritario abbiamo assistito ad
alcune esperienze vive, di possibile governo dal basso, nei
territori; prove valide di Federalismo dal Basso abilmente contrastate dal
centralismo.
Gli anni sopra descritti
rappresentavano, rappresentano, esattamente l’antitesi dell’ipotesi di un
autogoverno locale, composto in reti di scala più ampia e di cooperazione
solidale tra aree regionali ed interlocali nel paese. Non ci si può che votare
ad una opzione di autogoverno che è espressa in modo rigoroso nel federalismo a
base municipale, che è nel “dna” delle nostra storia.
Quanto al sistema centralista,
legato a doppio filo con economia e finanza, dia fastidio una opzione localista
lo intuiamo sia dalla sistematica azione di demolizione delle autonomie
comunali che il governo centrale mette in atto, sia per la sottrazione di
risorse che per l’erosione dello spazio di gestione del territorio e di servizi
in relazione diretta con la società.
Ed i comuni si ritrovano
catapultati nel cuore dell’attacco.
Vivendo di fatto in una nazione
dove il federalismo non è praticabile per legislazione necessita porre le basi
del federalismo attraverso le linee guida di un municipalismo cooperativo
sviluppato tra amministrazioni comunali non suddite ma anzi incarnazione di
azioni e strumenti di cooperazione e co-pianificazione inserite in una catena
di reti interlocali ed arricchite da una relazione partecipativa con le società
insediate: il federalismo municipale, l’autogoverno locale, che viaggia di pari
passo con il tema del welfare “municipale” e della difesa e valorizzazione dei
beni pubblici (che ne sono una delle espressioni fondamentali).
Contro quant0 appena descritto
l’autoritarismo neo-liberista del governo centrale si attiva quotidianamente
nel tentativo di distruggere l’autonomia comunale proprio per costruire la base
della privatizzazione dei beni pubblici e della aziendalizzazione e
commercializzazione dei servizi.
Si sono intesi, in questi anni,
i servizi da offrire ai cittadini/contribuenti quale mercato dove inserire i
propri amici, spesso su vasta scala, anche regionale, mentre i comuni e le loro
reti territoriali venivano spesso espropriati delle possibilità gestionali,
decisionali; in sostanza declassati a “passacarte burocratici”, privati di
capacità di mediazione, programmazione, progettazione. Il mercato trionfa ed il
servizio diventa insostenibile in quanto selettivo e costosissimo.
Se intendiamo riaffermare il
carattere pubblico di beni e servizi e della loro effettiva fruizione sociale
quale bene comune appare sempre più chiaro che vi è una sola basilare garanzia
e si tratta della fondazione della disponibilità dei beni e dei servizi nello
spazio pubblico, della relazione tra istituzione di base e società insediata,
ove la relazione non è mercantile ma fondata sulla cittadinanza. Chi fruisce un
servizio e un bene condiviso non è un cliente ma un cittadino ed un abitante,
che assume corresponsabilità appunto nello spazio pubblico, civile.
Necessita senza ombra di dubbio
alcuna una gestione “civico/municipale” del ruolo di progettazione, definizione
e gestione del servizio e della valorizzazione dei beni comuni.
Il municipio ha l’obbligo, anzi
mi correggo il diritto, di essere in campo, così come le reti di municipi,
verso una incidenza nelle politiche strategiche di welfare di area vasta
(supportate dal ruolo di provincia e regione), ma sempre a partire dalla
relazione locale società / istituzione.
Si può inoltre sostenere che
welfare municipale e produzione pubblica di servizi non possono non avere
fondamento su un controllo, o meglio, una “sovranità” sui beni pubblici (aria,
acqua, cicli delle materie prime e seconde e dell’energia) e sul bene pubblico
primario che li comprende, il territorio.
Attraverso l’attuale implosione
del sistema capitalistico si evidenzia sempre più pressante negli ultimi anni
quella crisi economica che ha radici ormai decennali, a questo punto occorre
trovare una via assolutamente alternativa, antitetica.
La sovranità e la
responsabilità di territorio sono il fondamento della possibilità di un “altro
sviluppo”, che produca un riattivazione del ciclo di riproduzione del valore
territoriale. L’autogoverno in rete, in sostanza il federalismo municipale, si
esprime infatti, strutturalmente, nella attivazione del patrimonio locale, dei
caratteri distintivi propri dei territori e delle società insediate e propone
la formazione di ricchezza durevole che esprime le “chance” dei territori,
differenziati, fondata sui capitali sociali e sulle qualità proprie dei luoghi,
su risorse locali.
La responsabilità di territorio
si esprime prima di tutto evitando processi di espropriazione e di svendita di
suolo e contestualmente attivando economie di valorizziamone del patrimonio
territoriale.
Le diverse vie alla
trasformazione qualitativa sono la base dell’autogoverno e della sovranità e le
reti (inter)locali sono il terreno fertile di “scambio equo tra associati.
Nel manifestarsi della crisi
dello sviluppo industriale e della produzione quantitativa e omologata appare
sempre più chiaro che il futuro delle economie si può concretizzare solo
attraverso la produzione di qualità differenziata nei diversi territori e
culture, caratterizzata localmente, distinta per luogo di origine.
Potrà essere solo questa la
risposta efficace posta di fronte al mercato internazionale invasivo della
produzione omologata a basso costo ed a bassa qualità, un opzione che può
riprodurre a scala mondiale, una rete di scambio delle diversità e delle
qualità differenziate per culture e caratteri locali.
Giorgio Bargna
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martedì 25 settembre 2012
Avviare il processo (popolo ed autogoverno)
Ho scritto in quest’ultimo mese di popolo, autogoverno e federalismo. Molti, tra quanti hanno letto, secondo me non hanno travisato il mio pensiero espresso in una frase che ripropongo qui sotto grassettandone una parte:
“Il concetto di Nazione permane, ma come una sorta di disegno a matita su una cartina, a cui delegare solo alcune prerogative quali difesa, la lotta al grande crimine, relazioni con l’estero, moneta”.
Io mi ritengo autonomista, ma anche realista e questi, che considero nel mio pensiero, tratti di matita sono però per molti, per le istituzioni, nazionali ed extra, per politici e finanzieri dati acquisiti, punti di forza da cui non si staccheranno mai volontariamente.
Allora come arrivare a quell’autonomia che consentirebbe ad un autogoverno di essere davvero tale, che consentirebbe ad un territorio di gestire le risorse, trattenendo la quasi totalità delle tasse raccolte nella propria area, che consentirebbe di gestirsi istruzione, trasporti, sanità e molto altro delegando al governo centrale solo, come già detto nei giorni scorsi, la difesa, la lotta al grande crimine, le relazioni con l’estero e la moneta?
Non sono un indovino, quindi una risposta certa non la ho, ma un opinione si.
Occorre formare un popolo, più esattamente una comunità locale, cementata sulle unità di intenti. Un popolo lo si forma solo se lo si fa sentire vivo, importante, decisivo, condizionate sulle scelte istituzionali. Lo si può formare solo, con impegno politico, localmente, fornendogli la possibilità di scegliere, suggerire, decidere, imporre se necessario…vi è solo un mezzo per potere plasmare tale “creatura” e sono le forme di democrazia diretta applicate a livello locale unite all’impegno politico di cittadini “normali”.
Io invito ogni movimento che sogna autonomia ed indipendenza a non fare voli pindarici, ma a restare coi piedi per terra, a non sognare grandi alleanze extraterritoriali, ma ad impegnarsi sui propri territori a cementare comunità vere e vive…diventare “catalani”, “scozzesi” (ma sono esempi soprattutto culturali e di democrazia locale, la Catalogna e la Scozia credo non gestiscano direttamente, ad oggi, le proprie risorse economiche, ma ci provano), richiede un processo lungo che richiede la presenza di grandi spinte politiche.
Ribadisco quanto scritto giorni fa: “L’autogoverno poggia sul principio di sussidiarietà, sulla sovranità democratica degli elettori, sulla libertà di associazione tra cittadini e sulla libertà di unione tra istituzioni territoriali”
Ribadisco anche di credere in un Federalismo Municipale, all’unione di Comuni in Aree Territoriali Omogenee, nella forza delle gente…dobbiamo solo sforzarci di spingere verso questa direzione, azionato un meccanismo simile non ha più alcuna importanza essere sotto l’egida di Roma o di Berna, se non per pisquiglie. Come conclusi giorni fa:
“Liberiamoci da chi sta uccidendo, non più solo il nostro futuro, ma ormai anche il nostro presente”.
Giorgio Bargna
venerdì 21 settembre 2012
Verso la Democrazia Reale
L’idea federalista in Italia (parlo di dopoguerra) è
circolata, seppure posta sotto il silenziatore dalle classi dirigenti, sin dai
tempi della Costituente, ma l’exploit è giunto grazie a, quello che si è poi
dimostrato un grande centralista, Umberto Bossi, il quale la ha si usata a fini
personali, ma la ha anche rilanciata ai massimi livelli sul pubblico
palcoscenico.
Tante sono le formule proponibili, io amo quella Municipale,
un’autonomia data ai comuni permetterebbe di gestire l'economia del paese
con maggior libertà, eliminando quell'odioso iter burocratico che permarrebbe comunque
con un federalismo regionale o macroregionale.
Stiamo parlando di Federalismo sia chiaro, non di secessione,
di massima autonomia possibile per un territorio all’interno di qualcosa di già
esistente, ridisegnare le mappe ad oggi, senza sconvolgimenti importanti a
livello storico diventa quasi impossibile.
Stiamo parlando di Federalismo soprattutto quale terapia a
quel male incurabile, raffigurabile con la piaga della partitocrazia e delle tangenti,
che affligge il nostro paese, stiamo parlando della situazione preposta ad
ottenere un maggior rapporto tra cittadini ed istituzioni. Ecco il perché di un
Federalismo che dia ai comuni il potere di gestire le risorse, trattenendo la
quasi totalità delle tasse raccolte sul territorio, e senza la necessità di
dover dipendere, per le decisioni, da persone che vivono in altre città, in
contesti socioeconomici quindi molto differenti.
Il concetto di Nazione permane, ma come una sorta di disegno
a matita su una cartina, a cui delegare solo alcune prerogative quali difesa, la
lotta al grande crimine, relazioni con l'estero, moneta.
Spesso separo, nel mio pensiero, ma sarebbe così
tecnicamente, il Federalismo dai principi di sussidiarietà, ma sono concetti
basati su freddi termini, che possiamo, nel tempo, plasmare ed arricchire; il Federalismo,
non può essere solo una suddivisione del potere, ma deve essere soprattutto un richiamo al pluralismo e alla
collettività, quindi un Federalismo, basato soltanto su un’opera di ingegneria
costituzionale, non rappresenta sufficientemente il collegamento con i cittadini
e la società.
La sostanza è che deve esistere una sorta di imprimatur
umano, la concretezza del federalismo non può limitarsi alla struttura costituzionale,
ma deve radicarsi nella società stessa.
Grande compito del Federalismo è conservare l’unità nella
diversità, essere una soluzione dinamica, che soddisfi le esigenze dei gruppi
sociali che vivono su un certo territorio e che intendono affrontare così le
problematiche che lo riguardano, ma se il Federalismo si ricollega al
pluralismo istituzionale e al decentramento politico che esso comporta, la
sussidiarietà non può limitarsi ad essere un iter burocratico, anche attraverso
lei si fonda il rapporto fra autorità e libertà che valorizzando le formazioni
sociali, contribuisce alla cementificazione di una democrazia reale.
Giorgio Bargna
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giovedì 20 settembre 2012
Democrazia dei cittadini (ancora un pò di Svizzera)
Proseguiamo col quarto capitolo della condivisione di alcuni pensieri di Paolo Michelotto, uno dei
non plus ultra del settore della Democrazia Diretta, parlando ancora di
svizzera. Michelotto nello scrivere il libro “Democrazia dei Cittadini”, nella
prefazione, invita a condividere le sue idee e le sue proposte su blog e
profili web, sarò felice di accontentarlo condividendo parecchie parti e
riflessioni tratte dal suo libro. Buona lettura.
Nella prosecuzione di questo capitolo dedicato alla Svizzera
vengono elencate alcune peculiarità che hanno i referendum quali strumenti di
controllo.
Dal
1874 a fine 2004, la Svizzera ha visto 151 referendum opzionali, in 78
occasioni i cittadini hanno bocciato la proposta del parlamento, il 51,65% trattando temi vari, dagli accordi con la UE,
all’impiego dei soldati svizzeri
in
missioni all’estero, dalla riforma dell’esercito alla privatizzazione del
mercato dell’energia.
Ci viene spiegato
attraverso Andreas Gross, deputato svizzero e capo dell’Istituto Scientifico
per la Democrazia Diretta di St.Ursanne, i motivi per cui tali iniziative
vengono lanciate:
•
come reazione alla mancanza di immaginazione
delle
elite politiche;
•
per ottenere qualcosa tramite la provocazione;
•
per mostrare una migliore alternativa su un
particolare
tema;
•
per promuovere un’idea completamente nuova
(esempio
l’abolizione dell’esercito);
•
per fare l’ultimo passo di un lungo processo
(esempio
l’adesione della Svizzera all’ONU);
•
per fare propaganda a un movimento;
•
come strategia di sopravvivenza di alcune
organizzazioni;
•
sempre però serve per far discutere e riflettere i
cittadini su un
argomento specifico.
L’utilizzo
degli strumenti di democrazia diretta rappresenta sempre un progresso nella
democrazia:
•
il numero degli argomenti discussi pubblicamente è più grande;
•
il dibattito pubblico che ne consegue permette il raggiungimento di compromessi
condivisi (ad esempio per mezzo delle contro proposte
dirette
o indirette dei governanti);
•
il numero di coloro che riescono a far sentire la propria voce nei processi
politici è maggiore.
Prendiamo
ora pari pari dal libro due paragrafi:
A livello locale
Nei
cantoni e nei comuni i cittadini sono meno propensi ad accettare i consigli dei
governanti. Le proporzioni cambiano notevolmente da zona a zona, passando da un
tasso di approvazione delle iniziative del 40% in Canton Ticino, al 23% della
media dei cantoni (contro il 9% a livello federale).
Giura: democrazia diretta in azione
Nel
Cantone Berna, per motivi storici complessi convivevano cittadini di
madrelingua francese e cattolici, di madrelingua francese e protestanti, di
madrelingua
tedesca e protestanti. La minoranza madrelingua francese cattolica che viveva
in prevalenza nello Giura, si sentiva discriminata
nei
suoi diritti e nel suo sviluppo economico. Nel secondo dopoguerra varie
associazioni e gruppi che chiedevano la secessione del Giura da Berna, si
unirono per far sentire la loro voce nel Rassemblement Juressien. Il governo
cantonale non voleva divisioni e concesse nel 1950 alcune autonomie. Nel 1957
il Rassemblement cominciò l’iniziativa che chiedeva: “Vuoi che allo Giura sia
dato lo status di Cantone sovrano della Confederazione?”. Il movimento secessionista
acquisì così voce politica e spazio nei media.
Nel
1959 si tenne la consultazione che mostrò che i 3 distretti abitati in
prevalenza dai madrelingua francesi cattolici, volevano il nuovo Cantone, ma
tutti gli altri distretti, la maggioranza, non lo volevano. Alcuni giornali si
affrettarono ad annunciare la morte del movimento separatista. In realtà era
solo l’inizio. Una piccola parte di questo movimento prese la strada violenta
dell’utilizzo di bombe e di attentati incendiari. Ma la maggioranza preferì
adottare tecniche pacifiche, ma che ottenevano grande risonanza nei giornali.
Tutta la questione rimase a livello cantonale finché i separatisti riuscirono a
non far parlare il presidente e alcuni ministri della Confederazione in visita.
A
quel punto diventò una questione nazionale.
Nello
sforzo di trovare una soluzione condivisa per risolvere un problema che non era
mai sorto in Svizzera, il parlamento Bernese elaborò una modifica
della
propria costituzione, che permettesse una procedura di separazione cantonale.
Questa modifica fu approvata dai cittadini del Cantone Berna nel 1970. Nel 1974
con i nuovi strumenti introdotti, venne chiesto ai cittadini dei distretti
dello Giura: “Desideri formare un nuovo Cantone?”. La maggioranza
rispose
sì. Nel 1975 vennero fatti una serie di referendum a livello distrettuale e
comunale per definire con precisione i confini del nuovo cantone. Dopo di
che
fu creata la costituzione del nuovo Cantone del Giura, approvata tramite
referendum ed infine fu chiesto a tutti i cittadini della Confederazione
Svizzera tramite referendum se volevano accettare l’adesione del nuovo Cantone
dello Giura alla Confederazione. Essi dettero la loro approvazione. La nascita
del Cantone Giura mostra che una buona combinazione di strumenti di democrazia diretta
e di federalismo, può risolvere l’esigenza di autodeterminazione di minoranze
con metodi pacifici e condivisi e senza il
ricorso
alla violenza. Il percorso del Cantone Giura può sembrare semplice e logico, ma
basta ricordare come paragone l’Ulster, i Paesi Baschi, la Bosnia, il Kossovo,
dove in presenza della sola democrazia rappresentativa gli eventi si
trascinarono in maniera assai più cruenta.
mercoledì 19 settembre 2012
Democrazia dei cittadini (un pò di Svizzera)
Terzo capitolo della condivisione di alcuni pensieri di Paolo Michelotto, uno dei non plus ultra del settore della Democrazia Diretta. Michelotto nello scrivere il libro “Democrazia dei Cittadini”, nella prefazione, invita a condividere le sue idee e le sue proposte su blog e profili web, sarò felice di accontentarlo condividendo parecchie parti e riflessioni tratte dal suo libro. Buona lettura.
Terzo capitolo della condivisione di alcuni pensieri di Paolo Michelotto, uno dei non plus ultra del settore della Democrazia Diretta. Michelotto nello scrivere il libro “Democrazia dei Cittadini”, nella prefazione, invita a condividere le sue idee e le sue proposte su blog e profili web, sarò felice di accontentarlo condividendo parecchie parti e riflessioni tratte dal suo libro. Buona lettura.
Prosegue il terzo capito del libro attraverso una panoramica
della democrazia diretta in Svizzera.
Io salto la parte nazionale, che è comunque
interessante (di cui ho ampiamente riflesso su “Giorgio Partecipativo con vari
post) e passo direttamente a quella che riguarda il livello locale, argomento
che politicamente mi interessa di più.
Tutti
i Cantoni e i comuni, tranne il Cantone Vaud,
permettono anche il Referendum Finanziario.
Per
esempio nel Cantone di Graubuenden, ogni spesa straordinaria superiore ai 6
milioni di euro circa, deve essere approvata dai cittadini con Referendum Finanziario
Obbligatorio. Ogni spesa da 600.000 a 6.000.000 di euro circa, è soggetta a
Referendum Finanziario Facoltativo se i cittadini raccolgono almeno
1500 firme (1,2% dell’elettorato cantonale). Per spese ricorrenti, come il
finanziamento della gestione di un teatro o per un festival dell’arte, che impegneranno
il Cantone per molti anni a seguire, c’è il Referendum Finanziario Obbligatorio
se la spesa annuale è superiore a 600.000 euro, Facoltativo se la spesa annuale
va da 200.000 a 600.000 euro, previa raccolta
di 1500 firme.
Guardiamo
le differenze
Ogni
Cantone e Comune ha le sue leggi e la sua storia e tradizioni e quindi, nonostante
l’uso degli strumenti di democrazia diretta sia diffuso e utilizzato
ovunque
nella Confederazione, ci sono notevoli differenze.
Per
esempio nel Cantone Zurigo, dal 1970 al 2003 i cittadini hanno potuto votare a
livello cantonale 457 volte (13,8 volte l’anno).
Nel
Cantone Ticino, nello stesso periodo, 53 volte (1,6 volte l’anno).
A
livello comunale le differenze possono essere ancora più estreme. Tra il 1990 e
il 2000 nei comuni del Cantone Berna si sono tenute 848 consultazioni.
Nei
comuni del confinante Cantone Friburgo, nello stesso periodo di 10 anni, si
sono tenute solo 4 consultazioni.
Questa
differenza è dovuta a tradizioni storiche, perchè molte decisioni nei comuni di
Friburgo, sono prese in assemblee
pubbliche comunali.
Nei cantoni di lingua
tedesca gli strumenti di democrazia
diretta
sono molto più utilizzati che nei cantoni francesi e in quello italiano. Questo
è dovuto anche al fatto che i comuni nei cantoni tedeschi, godono di
un’autonomia
molto maggiore. Anche l’accessibilità e l’apertura degli strumenti di democrazia
diretta, quali il numero di firme necessarie
e
il tempo previsto per la loro raccolta, determina
la
frequenza d’utilizzo. Nel complesso il trend in Svizzera è quello di
alleggerire e rendere più facile l’utilizzo, alleggerendo
le
difficoltà per chi vuole utilizzare gli strumenti di democrazia diretta.
Diversamente
che nel resto del mondo, i cambiamenti
alla
costituzione sono decisi dai cittadini.
Il ruolo del governo e del parlamento è quello di consigliere.
Saltiamo
a piè pari la storia della Democrazia Diretta svizzera e snoccioliamo invece
alcune cifre.
Negli
ultimi decenni, a livello federale, i cittadini seguono le raccomandazioni del
governo e del parlamento nel 90% delle votazioni. Ma la maggior parte dei
promotori delle iniziative e dei referendum che sono stati bocciati dai
cittadini, ritengono lo stesso di aver guadagnato qualcosa, sia esso un
dibattito su argomenti non trattati dai politici, oppure una legge
fatta
dal parlamento sull’argomento. Per questo aumentano ogni anno il numero delle
iniziative.
Circa
l’80% dei cittadini va a votare almeno una volta in un periodo di 4 anni. Le
votazioni, anche se molto frequenti, raggiungono una partecipazione
media
del 50% degli aventi diritto considerando tutte le votazioni dal primo
referendum confederale dall‘800 ad oggi. Questo dato tende a essersi
stabilizzato a poco più del 40% negli ultimi anni.
Nel
2006 la percentuale media di affluenza per i referendum confederali fu del
43,59%.
Nel
2007 la percentuale media di affluenza per i referendum confederali fu del
41,07%.
Nel
2008 la percentuale media di affluenza per i referendum confederali fu del
42,44% nei referendum effettuati nei primi 9 mesi dell’anno.
Questi
dati si ricavano dal sito della cancelleria federale svizzera www.admin.ch
I
sondaggi mostrano che il 90% dei cittadini è contrario a qualsiasi limitazione
degli strumenti di democrazia diretta.
Il
governo e il parlamento non possono contare sul sostegno incondizionato dei
cittadini nei 4 anni tra una elezione e l’altra.
Tutta
la società svizzera è abituata a far sentire la sua voce e a dibattere su tutti
gli argomenti. Il governo e il parlamento sono quindi costretti a fornire
informazioni trasparenti e spiegazioni esaurienti su ogni legge che essi
propongono. Il continuo ricorso ai referendum e alle iniziative costringe i
media a parlare dei temi messi al voto e ciò aumenta il dibattito e
la
consapevolezza tra i cittadini.
Ogni
legge che alla fine diventa esecutiva ha quindi un livello di gradimento, di
consapevolezza e di legittimazione, sconosciuti nelle altre democrazie.
Guardando
le votazioni effettuate finora ci si accorge che nei momenti di grande crisi
economica, come tra le due guerre mondiali e alla fine del 1900,
i
temi posti al ballottaggio riguardavano spesso la politica sociale e
l’immigrazione.
Regolarmente
distribuite nel tempo sono invece le votazioni riguardanti la forma della
democrazia, la sicurezza nazionale e questioni riguardanti la famiglia.
Negli
ultimi 70 anni ci sono state molte votazioni su temi ambientali e sul
trasporto. Come ad esempio l’iniziativa approvata sulla protezione
dell’ambiente montano (partita contro la costruzione di una base militare nel
canton Schwyz) e con l’iniziativa Alpina, con la quale i cittadini hanno
approvato la decisione di trasferire tutto il traffico merci dalle strade alla
rotaia
entro il 2010.
(continua)
Il nostro futuro (illustrato tra sacro e profano)
Gli italiani hanno dovuto, radicalmente, cambiare, nel corso degli ultimi anni, la loro tipologia di vita e questa genesi sicuramente proseguirà nel futuro prossimo, anche più drasticamente che nel passato. A vederla con estrema fiducia si lavorerà occasionalmente, presi a calci in culo e con retribuzioni che qualche anno fa non avrebbe accettato nemmeno un’apprendista e si pagheranno i contributi Inps già consapevoli di non avere diritto a maturare alcuna pensione. Se non ce le avranno prelevate prima banche o istituti di riscossione, venderemo le nostre case per far fronte ai debiti e continuare a mangiare un paio di volte al giorno cibi preconfezionati. La benzina avrà un prezzo paragonabile a metà stipendio, ma tanto noi non avremo più auto da rifornire, per muoverci utilizzeremo, chissà, auto di proprietà di qualche grande catena, che ci trasporteranno esponendoci offerte concorrenziali tipo “low cost”, con alla guida degli irregolari, disposti a farlo solo, a titolo pressoché gratuito, per non essere lasciati senza un tozzo di pane indurito.
Oh certo, avremo un vantaggio a pensarci bene, non terremo più di perdere linea, la tavola sarà sempre meno imbandita ed il salto del pasto diverrà addirittura uno sport olimpico a portata di tutti … pensate, non dovremo più nemmeno preoccuparci di quanti ci insultavano quando fumavamo in pubblico, scusate il francesismo, prossimamente fumeremo tutti, ma solo in inverno. E’ molto probabile che traslocheremo spesso, inseguendo il contratto a termine in voga a quel momento, ma ci costerà ben poco, poiché saremo proprietari di ben pochi oggetti, una buona carriola potrebbe bastarci per il trasporto. Cambiate le nostre “abitudini” che vi sarà anche una modifica lessicale, discutendo dei nostri modelli di vita si parlerà di “sistema di sopravvivenza”.
Mesi fa alcuni operai vennero manganellati mentre gridavano:“un operaio, una famiglia”. La famiglia, quello status, più o meno felice, ove ognuno sa di avere un ruolo importante e primario anche se fuori dalle sue quattro mura viene solo considerato un numero, un rifiuto organico da “smaltire” e nulla più, la famiglia quell’ oasi sicura dove rifugiarsi alla fine di una giornata, un luogo dove cercare, se si riesce ancora, sentimento, emozione, vita.
La famiglia è stata da sempre vittima di questo sistema, ha ceduto dapprima quella allargata, che viveva dei propri prodotti e si faceva forza sui rapporti umani, dilaniata dal lavoro salariato in fabbrica, dall’incapacità dell’ individuo di sopravvivere dopo il passaggio allo “stipendio”, quando fin poco prima viveva senza grande fatica i un sistema dove il denaro serviva solo a sovvenzionare l’autoproduzione o a supplire lo scambio ed il dono, quando l’umanità della collettività non riusciva a supportarlo. Oggi come allora la famiglia sta pagando, vittima della crescita e del progresso che vedono in essa un ostacolo all’individuo consumatore. La si uccide dal suo interno, provocandogli mancanza di lavoro o causandoglielo scarso e malpagato … attraverso la rabbia e lo stress si porta al suicidio qualunque legame possa avere il nostro individuo, fiaccandolo, lasciandolo solo, plasmabile ai meri interessi della macchina economica.
La società, nemmeno troppo tempo fa, si basava su valori tarati sulle qualità morali, oggi l’unica scala valoriale universalmente accettata è quella economica, si compara tra vincente e perdente, uomo di successo e anonimo, ricco e povero, chi lavora e chi è disoccupato.
Oggi tutti siamo vittime di un inasprimento di questo sistema, eppure raramente, a parte alcuni suicidi disperati e a qualche rivolta locale, non vediamo alcuna reazione a quanto succede … perché?
Immaginiamo che gli ultimi due premier “politici”, Berlusconi e Prodi, ci avessero mazzolato la metà di quanto sta facendo Monti … l’ometto di Arcore, nel 2001 rischiò una vera e propria insurrezione popolare, con gli scioperi generali, per aver ventilato una possibile soppressione dell’art.18 e il professor Mortadella ci andò vicino a fine 2006, scatenando un invasione di Roma, in risposta alla sua “morbida” finanziaria.
Oggi Monti ed il suo governo aumentano le tasse, assottigliano i diritti, ci lasciano in braghe di tela e non si notano poderose levate di scudi, perché?
Forse perché l’italiano, se non c’è nessuno che lo chiama a raccolta e lo accompagna in piazza, a protestare non ci va.
E come mai nessuno chiama a raccolta?
Il “Nostro”, evidentemente, si è coperto bene le spalle verso i soggetti che potevano ostacolarlo, Parlamento, sindacato, giornalisti, “intellettuali”, tuttologi vari e magari anche associazioni di consumatori.
Il silenzio dilaga assordante, salvo le azioni isolate di qualche minatore e di qualche No-Tav.
Intanto che ancora la hanno, gli italiani stanno ordinatamente in casa a farsi inchiappettare, attendendo una chiamata che non udranno mai, ignari (o colpevolmente consapevoli) del fatto che la propria salvezza se la debbono congegnare da soli, autodeterminandosi, scegliendo tra il mettersi in gioco personalmente nello scenario politico partendo dal basso o l’ invasione delle piazze, senza generali, ma con tanti forconi, senza che nessuno li porti là con l’autobus.
Io spesso e volentieri, nel mio piccolo, richiamo alla prima di queste ipotesi, lo faccio anche ora, ma ogni volta ricordo anche che il tempo scarseggia sempre più e prima o poi potrebbe succedere anche il peggio, con la convinzione personale che dalle rivoluzioni armate raramente si esce meglio di quando ci si è entrati, quindi cittadini, che ci stimassimo italiani, cisalpini, calabresi o metapontini vediamo di pararci il culo tutti insieme, in questo frangente il nemico è uno solo.
Giorgio Bargna
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Cantù CO, Italia
martedì 18 settembre 2012
Autogoverno
Autogoverno
Negli ultimi anni si è parlato spesso, a volte con sufficienza, del concetto di “autodeterminazione”, questo termine rappresenta una variegata serie di significati, un ginepraio in cui diviene impossibile giostrarsi, se non interpretando il termine a proprio piacimento.
Andiamo a prendere in considerazione il rapporto tra Stati e cittadini in merito al diritto di questi ultimi di disporre di se stessi e alla luce delle norme del diritto internazionale. Secondo queste ultime và fatto presente che gli Stati e non i popoli sono i soli destinatari formali delle norme in materia, mentre questi ultimi possono esserne al più i beneficiari, e che una distinzione, purtroppo o a ragione, va fatta tra i concetti di popolo, minoranza, popolazione indigena o gruppo insurrezionale … aspettarsi di ricevere qualcosa dalle istituzioni è pura velleità.
“Autodeterminarsi”, potrebbe anche essere un riferimento all’individuo come singolo, e quindi alla possibilità concessagli di esprimere la propria personalità senza restrizioni ed in tutti gli ambiti: quello politico, quello sociale, quello religioso, quello sessuale ma anche quello medico … ma non stringiamo troppo l’argomento, soprattutto non allontaniamoci da quello che mi preme.
Il termine autodeterminazione , esprime l’azione a conseguire la creazione di un nuovo Stato sovrano indipendente, dotato di proprio esercito e di propria moneta, in genere legittimato dal principio etnico, nazionale, o religioso, attraverso la secessione da un’altra entità statuale. Un padre dell’autodeterminazione potrebbe essere il Presidente americano Thomas Woodrow Wilson. La proposta di Wilson venne concepita per sanare la situazione europea di quel dopoguerra, sui risultati non mi soffermo, non sarebbe cosa breve e neppure semplice. Il richiamo all’autodeterminazione ebbe in seguito successo come sostegno alle rivendicazioni indipendentiste connesse alla decolonizzazione, o a quelle sostenute da minoranze etniche o nazionali in presenza di scarso o nullo riconoscimento dei loro diritti. A questo proposito, possono essere citate le rivendicazioni separatiste ancora attive nei Paesi Baschi, nel Québec, nel Kashmir, in Tibet, nel Kurdistan. Queste tendenze alla frammentazione politica del mondo, riscontrabili anche all’interno di Stati democratici, come la Spagna, l’Italia, il Canada, oppure l’India, poste frontalmente davanti a delle “Istituzioni” difficilmente portano a risultati e sono contrastanti lo sviluppo del federalismo.
Preferirei concentrarmi sul concetto di “autogoverno” il quale si colloca nel quadro della democrazia e riguarda la protezione di interessi e culture autoctone espressi da regioni e comunità locali senza che sia messa in discussione l’unità dello Stato (non tanto per un valore in se stesso, ma per l’arcignità della sua autodifesa politica) e l’articolazione pluralistica della società. L’autogoverno poggia sul principio di sussidiarietà, sulla sovranità democratica degli elettori, sulla libertà di associazione tra cittadini e sulla libertà di unione tra istituzioni territoriali, sul dominio della costituzionale, può essere esercitato nell’ambito degli Stati decentrati o federali in applicazione del principio di sussidiarietà. Le leggi costituzionali di uno Stato prevedono spesso l’estensione o la riduzione orizzontale delle competenze di un centro di decisione, oppure il trasferimento verticale delle competenze tra autorità politiche di vario. Citiamo anche senza che abbiano troppo in comune tra di loro, ma perché sono casi reali, il Nanavut nel Canada settentrionale, la Devolution del Galles e alla Scozia.
Dunque, l’autogoverno è un concetto politico che si regge sui principi di sussidiarietà, solidarietà, cooperazione e coordinamento che sono tipici del federalismo, gli organi di vertice vengono formati attraverso la partecipazione della collettività, attribuendo a essa l’esercizio delle funzioni pubbliche in un determinato ambito territoriale, con l’esclusione di quelle relative ai rapporti con l’estero e la difesa il che consente la costruzione dell’unificazione politica dell’umanità, dalla comunità locale alla dimensione mondiale, nella pace e nell’osservanza della legge, attraverso l’esercizio del sovrano democratico del cittadino ai diversi livelli del potere organizzato, il tutto previsto (poi sarebbe da vedere quanto applicato) dalla Carta delle autonomie locali del Consiglio d’Europa, che è stata ratificata come legge interna in quasi tutti gli Stati membri dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e per la Cooperazione in Europa), tra cui anche l’Italia.
Ormai sono anni che “bazzico” nel web e fuori, uomini e movimenti che vogliono riscrivere la forma di questo Stato ne ho conosciute parecchi, più o meno la pensiamo in forma simile: Federalismo, Autonomia, Responsabilità, Partecipazione, tutti con molta voglia di unirsi per cambiare … il principio è giusto, condiviso, la strada intrapresa fino ad oggi invece errata. Si cerca di unire forze che arrivano dai quattro punti cardinali, piene di fantastiche idee, ma vuote di concretezza locale.
Io credo occorra, per abbattere il “leviatano”, radicarsi appieno (lo vogliono anche i princìpi dell’autogoveno) nei propri territori locali, governarne bene alcuni e poi utilizzarli quali modelli per un progetto federativo, magari di tipo municipale.
Liberiamoci da chi sta uccidendo, non più solo il nostro futuro, ma ormai anche il nostro presente.
Giorgio Bargna
lunedì 17 settembre 2012
Senso Civico: reti di appartenenza
Proviamo ad
approfondire l’argomento “Senso Civico”, volessimo dare un significato a questo
termine potremmo anche asserire che si tratta di un atteggiamento di
fiducia verso gli altri indirizzato ad un disponibilità di cooperazione verso
per il miglioramento della propria società; a mio vedere la fiducia produce
effetti benefici a tutta la società, migliora il funzionamento delle
istituzioni ed in generale dei servizi pubblici, edificando di fatto una
migliore qualità della vita.Un atteggiamento contrario, di fatto, provoca
indifferenza se non anche azioni prevaricatorie verso gli altri e verso le
risorse pubbliche.
Ognuno di noi nella
vita partecipa a delle reti sociali di condivisione e/o di scambio, esse
possono essere catalogate in due tipologie: orizzontali o verticali.
Quelle orizzontali
accostano tra loro persone che sono membri di uno basamento similare (es. genitori
di una scuola, relazioni fra vicini o componenti di un’associazione) e spesso
propagano una reciproca solidarietà, un vero capitale sociale, in sostanza.
Quelle verticali
legano invece persone appartenenti a livelli diversi e
dipendenti tra loro; possiamo annoverare in questa categorie, solo per
farne pochi esempi, i rapporti tra il cittadino col politico di riferimento,
con gli eventuali interscambi voto/favore o quelli col capo mafioso locale o
col capo di un ufficio pubblico.
Da queste seconde
possiamo estrarre alcuni comportamenti che certamente non denotano senso
civico:
-Favoritismo: un
paziente che riesce a evitare di fare la fila per una visita grazie ad
amicizie e/o raccomandazioni
-Raccomandazione: una
persona in posizione di potere fa avanzare pratiche o assunzioni
-Clientelismo
politico: un politico scambia benefici contro voti.
-Patronage:
distribuzione di posti nella pubblica amministrazione e nel parastato a
individui direttamente legati ai partiti e insediati grazie a pressioni partitiche.
Quando la fiducia
negli altri prevale, nella società si sviluppano una buona quantità di
relazioni orizzontali, se a prevalere invece è la sfiducia le relazioni
orizzontali latitano e le relazioni verticali prendono il sopravvento.
Proviamo ad indicare
dei segnali che denotano una società con bassi livelli di fiducia:
-Strade e altri luoghi
pubblici sporchi a causa di rifiuti gettati per strada, muri
imbrattati da graffiti
-Mancato rispetto di
semafori, dell’obbligo del casco e della cintura di
sicurezza, del codice
stradale in generale, del divieto di fumare in luoghi pubblici
-Ostruzione di luoghi
pubblici di passaggio (strade, ingressi dei negozi, passi
carrabili, parcheggi
riservati a disabili, corridoio dei treni)
-Insofferenza per il
lavoro subordinato: impegno scarso o altalenante, assenze
non giustificate,
scarso rispetto degli orari
-Furbizia nei rapporti
con gli altri
-Proprietà
pubbliche in cattivo stato perché usate senza attenzione, perché
volontariamente danneggiate o per scarsa manutenzione
-Mancato pagamento di
condominio, utenze domestiche, bollo e assicurazione auto, biglietti treno,
imposte
-Bambini e ragazzi
maleducati non tenuti a freno dai genitori in luoghi pubblici
-Fonti di rumore ad
alto volume senza preoccupazione deivicini
-Violenza come
modalità di risoluzione dei conflitti frivoli quali precedenze stradali, liti
condominiali, etc
-Violenza come
modalità di interazione con le donne
-Furti, scippi,
omicidi / delinquenza organizzata
La tipologia delle
reti perpetra un effetto anche durante la ricerca di lavoro. Laddove prevalgono
le reti verticali la quota maggiore di posti di lavoro viene assegnata per
raccomandazione, e perciò chi è escluso o non vuole utilizzare reti verticali
compete per un numero di posti di lavoro minore. Non occorre essere dotati di
un intelligenza superiore per comprendere che in una società dove la
raccomandazione è diffusa, e non compete alla meritocrazia assegnare un ruolo,
si scoraggia l’investimento in istruzione ed investimenti e si determinano
servizi pubblici poco efficienti affiancati da una minore competitività. Del
resto la comprensione dell’importanza di una società meritocratica è molto
recente, sostanzialmente appartiene al pensiero moderno ed anche all’interno di
questi fatica ad imporsi, un esempio
eclatante, ancora oggi, è facilmente verificabile in alcuni imprenditori che
mandano a picco la loro fabbrica affidandola ai figli, anche quando essi non
toccano i livelli di competenza di alcuni dipendenti.
La genesi del
senso civico
Parte della
psicosociologia sostiene che gli atteggiamenti di fiducia o sfiducia hanno
radici storiche ed economiche, l’atteggiamento di sfiducia nel prossimo è
sintomatico delle società dove non conviene o non è concessa la cooperazione,
società cioè povere e/o istituzionalmente disorganizzate in questo senso.
Secondo Banfield, che
nel primo dopoguerra studia le relazioni sociali in un piccolo paese della
Basilicata, la principale legge che guida il comportamento degli individui
in società di questo tipo è quella del ‘familismo amorale’, vale a
dire: “Fregatene degli altri, cerca di ottenere in ogni modo i maggiori
vantaggi immediati per te e la tua famiglia, e comportati come se tutti
gli altri si comportassero in questo modo”.
Quando trasmessa, la sfiducia negli altri
può estendersi al futuro, trasmessa fra generazioni, anche se la situazioni
socioeconomiche mutano, sebbene che delle esperienze opposte, vissute
personalmente, possano modificare questo trand.
Passiamo ad un esempio
pratico … abito in un palazzo, di fronte a me, sul pianerottolo c’è un altro
appartamento, di chi lo abita non conosco nemmeno il viso, lo sento raramente
entrare ed uscire.
Nel palazzo
l’amministratore non fa il suo dovere, alle appliques che illuminano il piano
si sono “bruciate” le lampadine, il problema è chi le sostituisce. Debbo
scegliere tra le azioni possibili:
- non occuparmene,
stando al buio
- sostituire la
lampadina solo all’applique sul mio lato, sperando in lui per l’altra
- sostituirle entrambe
io, sperando che la volta successiva lui faccia altrettanto
Se provo diffidenza
nel prossimo presumo che il dirimpettaio non sostituisca le lampadine, se sono
fiducioso proverò, per qualche volta, a sostituirle io. Se non agisco rischio
di stimolare l’altro a fare altrettanto, se agisco il mio vicino si rende
conto che non sono un tipo ostile, e può concludere che con me
qualche cooperazione è possibile; da questo, che può apparire come una
banalità, possono scattare altri meccanismi di cooperazione nei momenti in cui,
ad esempio, ho dimenticato di acquistare il caffè oppure ho bisogno del latte
quando sono malato.
I nostri atteggiamenti
però non derivano solo da quanto descritto qui sopra, in larga parte dipendono
anche da quanto ci trasmettono i mass media, la ricezione di quanto accade,
conformemente a come ci viene presentato, ha una forte attitudine nel forgiare
o annientare il senso civico, perché raffigura esplicite le “regole del gioco”
a cui tutti i cittadini sono assoggettati.
Comprensibilmente il senso civico esce
screditato dall’osservare l’inefficienza e la corruzione degli amministratori
pubblici, la prevalenza degli interessi particolari sugli interessi generali,
la sistematica violazione delle norme e/o la scarsa equità delle istituzioni
verso i cittadini.
Con quali
modalità è possibile migliorare?
Come promuovere il
senso civico e le reti orizzontali?
Ribadiamo che a
livello individuale il senso civico e capitale sociale sono maggiori
quanto più una persona:
- È cresciuta in un
contesto familiare caratterizzato da fiducia e disponibilità a collaborare
verso con gli altri
- Ritiene di poter
soddisfare i propri bisogni di vita attraverso l’iniziativa personale e/o la
collaborazione con gli altri
- E’ oggetto di
atteggiamenti di rispetto e cooperazione da parte degli altri e verifica
che chi viola le regole paga pegno
- Ritiene di poter
influire sulla gestione della cosa pubblica e/o che la cosa pubblica sia
bene amministrata.
Per ottenere questi
risultati è possibile agire su più ambiti, quali singoli
cittadini possiamo:
- Manifestare un
atteggiamento di gentilezza e cooperazione verso gli altri e rifiutare la
violenza come modo per risolvere i conflitti
- Rifiutare di essere
parte di sistemi clientelari
- Sostenere quelle
forze politiche e associazioni che condividono questi valori
- Utilizzare una parte
del nostro tempo libero per intervenire a livello individuale e/o impegnarci
assieme ad altri in attività sociali
In mancanza di un
contributo sociopolitico risulta però molto più complicato ottenere risultati
incisivi e duraturi, solo la presenza di una società dove l’individuo può farsi
valere per le proprie capacità e la partecipazione a reti orizzontali permette
di ottenere risultati positivi.
Se non arriva l’input
da parte degli attori che gestiscono o influenzano la gestione dei servizi e la
distribuzione delle risorse pubbliche si complica alquanto lo sviluppo
del senso civico, necessita che ognuno di essi, nel proprio ambito, si spenda
per:
- Istituzioni
pubbliche il cui funzionamento (inclusa la gestione del personale e
l’assegnazione di risorse pubbliche) sia basato sul merito e
reso trasparente, anche attraverso il coinvolgimento degli utenti
- Sanzioni efficaci
con chi non assicura il rispetto o non rispetta le regole e regole facili
da comprendere e rispettare (ad esempio senza cestini sulla spiaggia la
quantità di spazzatura abbandonata è maggiore)
- Attività educative
che evidenzino i vantaggi del senso civico, del capitale sociale e della
meritocrazia
- Assicurare
possibilità di avanzamento sociale ai meno abbienti, fra i quali spesso la
mancanza di senso civico è particolarmente diffusa.
- Una valutazione
preventiva di tutte le scelte politiche e delle normative sulla base di
questi criteri.
Il quesito è: avranno
interesse costoro a sviluppare il nostro senso civico?
Secondo me non lo
hanno, di conseguenza dobbiamo essere noi con le nostre azioni quotidiane a
sopperire a questa “mancanza”.
Giorgio Bargna
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