lunedì 2 dicembre 2013

Libera nos a malo

Da almeno un centinaio di anni subiamo il tentativo di imposizione di una dottrina economica di stampo liberista; certamente dopo l’abbattimento del fatidico muro berlinese il tutto ha subito un’ accelerazione impressionante.

Lo sblocco delle limitazioni internazionali legate allo scontro USA/CCCP ha lasciato spazio aperto ad una sorta di deregulation che ha consentito ai grandi (ma non solo) realizzatori di manufatti di procurarsi le migliori condizioni per produrre e/o  le proprie  merci utilizzate per pompare un consumismo ed una produttività, a loro vedere, smentiti da un implosione evidente, illimitati.

Il dramma di questa situazione, per il mondo occidentale, non è solo quello di pagare dieci volte il prezzo di produzione, o di sfruttare poveri oppressi, ma soprattutto la  fine della logica del lavoro a tempo indeterminato per molte categorie, sviluppando l’esistenza di una categoria di lavoratori che, sotto varie forme, si prestano a prestazioni lavorative “pesanti” a basso prezzo e senza garanzie.

Spesso e volentieri, negli ultimi anni, si è sviluppato un certo giro di appalto e subappalto dei lavori (più o meno regolare, ma che consente sempre la possibilità di nascondere al meglio il committente) attraverso il quale è possibile sfruttare i lavoratori al massimo delle possibilità, pagando un salario ai limiti della sussistenza, utilizzando gli straordinari come regola, tralasciando qualsiasi standard di sicurezza (sia lavorativa che di stampo ambientale) ed annullando la presenza sindacale.

Questa follia globalizzatrice miete in continuazione vittime oltre tra la povera gente ed il ceto medio in molte categorie, piccoli/medi imprenditori compresi, le nostre imprese più piccole sono obbligate a chiudere i battenti o a seguire anch’esse questa procedura d’azione indegna.

Le cronache di ogni giorno ci insegnano che il pensiero liberista pretende continue e progressive privatizzazioni (es: Telecom, BNL e Alitalia) pro investitori esteri ed impone continui tagli alla spesa sociale per sostenere il peso dell’enorme debito pubblico, che si auto implementa in questa situazione.

Per mantenere il passo competitivo delle produzioni provenienti dai nuovi mercati nascono e si sviluppano, ad hoc, formule contrattuali, verso i nostri lavoratori, precarizzanti e destabilizzanti dove anche ferie e malattie vengono abolite. Malgrado tutto questo la classe media italiana si impoverisce progressivamente, l’inquinamento si alimenta (pensate allo spostamento delle merci da una parte all’altra del paese o del pianeta).

Questo tipo di globalizzazione va abbattuto, è ora di ripensare, come già scritto molte volte in merito, ad una forma locale di produzione, sostenibile ambientalmente e rispettosa della tutela dei lavoratori.

Aggiungo in calce a queste considerazioni parte di un mio precedente pensiero.

Dobbiamo optare (lo facciano almeno i giovani, noi oltre una certa età faticheremmo, scrivo soprattutto per loro) ad un “nuovo” stile di vita. Singoli cittadini, famiglie, amministrazioni (locali e non) piccole (o meno) cooperative, hanno un futuro avanti a se solo se intraprendono la strada virtuosa della autosufficienza energetica etica ed alimentare. Ho espresso spesso concetti di comunità; ecco occorrono comunità capaci di produrre energia rinnovabile sufficiente ai propri bisogni, produrre cibo per se stessi e non per il “mercato”, di realizzare autonomia idrica e magari di sostenersi su una moneta locale.

Immaginatevi oggi cosa potrebbe significare per una metropoli (ma non solo per essa) una crisi energetica dovuta alla mancanza di petrolio, nel giro di poche ore si esaurirebbero le scorte alimentari e nel breve fiorirebbero il mercato nero e la delinquenza della rapina per sopravvivenza.  Un esempio non lontanissimo, il black out di non ricordo quale city americana, grazie al quale assistemmo a  saccheggi e uccisioni, la democrazia e l’onestà vennero polverizzate da comportamenti da età della pietra.

Ci siamo scordati tutti che la maggior parte delle merci necessarie può essere prodotta in casa o tramite aziende locali dalle dimensioni umane, azione che contrasterebbe e limiterebbe ferocemente la creazione di grossi interessi economici, di monopoli, origine di molti mali. La società della piccola produzione, dell’indipendenza energetica autoprodotta, dell’agricoltura biologica, del rispetto dell’aria e dell’acqua è l’unica società che non avrà paura di nessuna crisi e che avrà un futuro.                                                                                       
I corsi ed i ricorsi storici hanno una valenza, la Roma “globalizzatrice” del S.R.I. ebbe sino a due milioni di abitanti e merci provenienti da tutto il mondo, ma fallì, la città si svuotò scemando a 35mila abitanti ed alle persone non rimase che di spandersi per le campagne a fare i contadini.

Giorgio Bargna

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