Mi permetto ancora una volta di prendere spunto dai pensieri
di colui che considero un mio “guru” in senso politico, Alain de Benoist.
Oggi è noto a tutti coloro che sono “svegli di comprendonio”
che imperi la società della crescita, in sostanza un’antisocietà, una via senza
ritorno, un omicidio perpetrato ai danni di molti da parte di pochi.
Ogni politico, ogni governante, da qualsiasi estrazione
politica “tradizionale” provenga, non vede altre soluzione ai suoi problemi che quella di un “ritorno alla
crescita”… nel frattempo però ci stanno massacrando di rigore e austerità,
togliendoci, di conseguenza, potere di acquisto, ma soprattutto di
sopravvivenza, come un cane che si morde la coda … sebbene un continente intero
stia pagando in termini di recessione, impavidi, i “nostri” inseguono
imperterriti la crescita, malgrado che
si viva su un pianeta che, di logica conseguenza, ha uno spazio finito, dove le
riserve naturali si fanno sempre più rare … certo recedere non si può in un
botto solo, ma da un qualche latidutine bisognerà pur certo cominciare.
Del resto la difficoltà di una rivoluzione operante dipende
da ciò che de Benoist descrive così:
«Proibendo alle
proprie banche centrali di farsi prestare capitali ad un tasso d’interesse
nullo, come accadeva di norma in passato, gli Stati si sono posti nell’obbligo di chiedere prestiti alle banche
ed ai mercati finanziari a dei tassi variabili, arbitrariamente fissati da
questi ultimi. Questo si è tradotto in un innalzamento del debito pubblico che oggi è divenuto
insopportabile. Non arrivando a riassorbire i loro deficit strutturali, gli Stati
non possono affrontare il problema del debito, se non indebitandosi sempre più.
Di fatto, in tal modo si è creata una situazione simile a quella dell’usura».
Aggiungendo un argomento scottante al dominio della finanza
sulla politica e sulla buona amministrazione non posso che condividere il
pensiero del filosofo francese, anche perché è quanto affermo, sui miei spazi,
da anni: tanto la destra quanto la sinistra approfittano e sponsorizzano
l’immigrazione incontrollata. Leggiamo la chiara disamina di de Benoist:
«Fin dalle sue
origini, il capitalismo ha rivelato una profonda affinità col nomadismo
internazionale. Già Adam Smith diceva
che la vera patria del commerciante è quella dove può realizzare il massimo
profitto. Prendere posizione a favore del principio del “lasciar fare, lasciar
passare”, cioè della libera circolazione di uomini e merci, così come ha sempre
fatto il capitalismo liberale, significa mantenere le frontiere per gli
inesistenti. Dal punto di vista della Forma-Capitale, la Terra non è che un
immenso mercato che la logica del profitto ha la vocazione di scoprire
integralmente, impegnandosi in una perpetua fuga in avanti. Il capitalismo,
come aveva ben visto Marx, riguarda tutto ciò che ostacola questa fuga in
avanti in quanto ostacolo da far sparire. In questa prospettiva, il ricorso
all’immigrazione appare come un mezzo per mantenere bassi i salari e le
conquiste sociali dei lavoratori autoctoni. È in questo senso che
l’immigrazione costituisce “un’armata di riserva del capitale” bella e buona.
Il paradosso è che molti avversari del capitalismo vorrebbero vedere continuare
l’immigrazione, perché s’immaginano di trovare nella massa degli immigrati una
sorta di “proletariato di ricambio”. E’ una delle varie incongruenze»
Per il momento, nessuno sa veramente come arrivarci, ma questo
sistema affonderà, non abbattuto dai suoi avversari, quanto piuttosto sotto
l’effetto delle proprie contraddizioni interne.
Oggi, del resto, le sovranità popolari si trovano
soverchiate e il potere decisionale è passato nelle mani dei tecnocrati e dei
banchieri.
Per un vero cambiamento oggi bisogna, però, operare anche su
una rivoluzione interiore dell’essere umano perché capitalismo e consumismo
sfrenato non sono solo prerogative della finanza, ma anche dell’uomo, si tratta
infatti di rompere non solo col produttivismo, ma anche con l’utilitarismo, lo
spirito calcolatore, con l’idea che tutti i valori possono e devono essere
ridotti al solo valore di scambio. In altre parole, si tratta di uscire da un
mondo dove niente ha più valore, ma dove tutto ha un prezzo.
Sostengo da anni anche ciò che Alain de Benoist descrive
chiaramente in questo pensiero:
“L’azione
locale, che sia di ordine politico (gioco della democrazia diretta, per
rimediare alla mancanza di legame sociale) o economico (rilocalizzazione della
produzione e del consumo) può aiutare le comunità viventi a riconquistare la
loro autonomia, cioè a dotarsi dei mezzi che permettano loro, conformemente al
principio di sussidiarierà (o di competenze sufficienti) di rispondere da sole
ai problemi che le riguardano”.
Giorgio Bargna
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