martedì 4 novembre 2014

Di nuovo su "Il Lavoro"

Non dico certamente qualcosa di nuovo asserendo che la crisi economica degli ultimi anni, su cui poi magari bisognerebbe approfondire le cause, abbia accentuato le difficoltà nell’impiego di risorse umane e che soprattutto abbia peggiorato gli indicatori di qualità della condizione dei lavoratori. Si moltiplica la presenza di contratti temporanei (anche a lungo periodo) che sempre più raramente si concretizzano con la loro stabilità temporale, spesso inoltre si accede ad una mansione tramite la richiesta di un titolo di studio superiore alla necessità reale di fronte alla bassa retribuzione e all’irregolarità dei contratti.

Ne ero già persuaso prima di perdere il mio ultimo contratto a tempo indeterminato, lo sono ancora di più oggi che ne inseguo uno: difficilmente per qualità e retribuzione trovero qualcosa di pari livello; lo sanno in molti anche e forse soprattutto coloro che nella scala delle mansioni pagano la diminuzione del lavoro partendo dalla crisi dell’edilizia (settore che è stato però drogato negli ultimi anni) scendendo per gli accessori quali magari arredamento e similari.
Si sono mantenute, a mio avviso, costanti le percentuali di differenza statistica tra nord e sud mentre alla problematica del lavoro giovanile si è aggiunta la crisi occupazionale di chi è definibile over 45. Se si leggono le statistiche, qualcuno parla di non partecipazione al mondo del lavoro, a mio avviso dietro a queste cifre si nasconde il lavoro in nero, genere di lavoro che approfitta delle difficoltà degli stranieri e che diametralmente avvicina coloro che sono supportati da ammortizzatori sociali; si legge anche della crescita dei dati tra gli ultracinquantenni, mi pare chiaro che i prolungamenti resi possibili dalle ultime scelte di natura pensionistica invitino a continuare a lavorare, più che a sopravvivere con la “pensione”, ovvio che l’aumento di lavoro in questa fascia di età provochi collassi in fasce più giovani.

Da sempre poi il mondo del lavoro in Italia per le donne è insito di difficoltà volute e/o dovute sia a causa di mentalità primordiali che a causa della scarsità di servizi sociali fornite ad una donna che decide di diventare moglie e madre.

A qualcuno potrebbe apparire retorico parlare di qualità di lavoro in questa situazione, a mio avviso sempre e comunque deve, dovrebbe, valere un principio di “adeguamento del lavoro all’uomo e non viceversa” anche se il lavoro è altresì un elemento centrale per il progresso economico della collettività.

Partendo da aspetti statistici potremmo concentrarci su quattro dimensioni della qualità del lavoro.
La prima dimensione, ergonomica, fa riferimento ai bisogni dell’individuo sul posto di lavoro.
La seconda, la dimensione della complessità, corrisponde alle esigenze di creatività, sviluppo di competenze e problem-solving della persona.
La dimensione dell’autonomia riguarda invece la possibilità di avere una certa libertà decisionale.
La dimensione del controllo si riferisce al bisogno di controllare le condizioni generali del proprio lavoro.

Un ruolo centrale svolge tuttavia la cosiddetta dimensione economica, ovvero la retribuzione percepita dal lavoratore, associata alla possibilità di soddisfare i bisogni basilari ed essenziali per la sopravvivenza.

Aldilà della retribuzione che a mio avviso si rivela incostante nei risultati passando dal sottopagato al supervalutato molte volte, spesso, viene negata al lavoratore la possibilità gestionale del proprio ruolo vuoi per scelte aziendali, vuoi per l’imposizione egoistica del classico “capoufficio”.

E’ poi l’OCSE ad esprimere una durissima poi la descrizione su tipologia e qualità del lavoro in Italia:< < contratto a tempo determinato è pari al 70%, una delle più elevate tra i paesi Ocse.  E contare troppo su queste forme contrattuali “è pregiudizievole nei confronti dei singoli e dell’economia” perché può “avere un effetto negativo sia sull’equità, sia sull’efficienza”>>. 

Sempre basandosi su dati OCSE possiamo osservare altri dati allarmanti. In Italia non è solo elevata la quota di disoccupati, ma anche quella di occupati con un lavoro di scarsa qualità. Appare che il lavoro in Italia sembra essere caratterizzato da un basso livello di sicurezza, a causa dell’elevato rischio di disoccupazione e di un sistema di protezione sociale caratterizzato da un tasso di copertura relativamente ridotto e da un contributo poco generoso agli aventi diritto.
Concordo, per esperienze personali, ad altre osservazioni OCSE secondo le quali in Italia anche la qualità dell’ambiente di lavoro è modesta de un alto numero di persone ritiene di lavorare in condizioni difficili e stressanti, caratterizzate da un elevato livello di pressione e dalla necessità di svolgere mansioni complesse con risorse limitate. 

Troppo spesso i temi legati alla salute ed alla sicurezza di lavoratori finiscono con l'essere marginali nonostante morti, infortuni, malattie professionali ed ambientali, forniscono ogni anno statistiche impietose. La visibilità dei lavoratori e delle loro problematiche sono, spesso, legate a vicende tragiche. Parimenti si continua ad ignorare la relazione tra l'ambiente interno alla fabbrica, le sue problematiche e quanto accade fuori i perimetri di alcuni indotti, andrebbe rivendicato oggi più che mai il diritto alla salute e sicurezza nel segno di quelli sanciti dalla Costituzione italiana, unitamente alla loro dignità di lavoratori e cittadini. E'facile constatare ed affermare che salvaguardando l'ambiente di lavoro, là dove si crea l'inquinamento, si tutela la salute dei lavoratori e di conseguenza quella degli abitanti residenti nei pressi della fabbrica. La questione ambientale e quella occupazionale diventano facce della stessa medaglia e non fattori in competizione tra loro, né tantomeno oggetti di scambio, sono semplicemente due diritti da rispettare.

Oggi il lavoro è sempre più in direzione del contenimento dei costi e dei tempi di produzione legati alla consegna del manufatto prevista dal mercato, costi quel che costi, spesse volte anche nel non rispetto dei parametri ambientali. Sappiamo che ad esso si sacrificano investimenti sulla sicurezza considerati come costi aggiuntivi, se non proprio perdite di tempo, in alcuni casi da conciliare, in altri da evitare. Investire nella sicurezza e sull'ambiente di lavoro non può essere considerato un peso economico, né una mera enunciazione.

Mi chiederete dopo tante critiche una scelta alternativa; sarò breve in questo, non conosco scelte alternative e quindi vi rimando  a questo articolo, ed a questo secondo, tutte le vie passano da li.
Giorgio Bargna

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