lunedì 1 settembre 2014

Terza posizione (2)

Nel settembre 2008 pubblicai sul mio vecchio blog Giorgio Partecipativo una mia opinione sull’immigrazione divisa in tre tranche; la ripropongo oggi pari pari ad allora.


Prosegue il mio pensiero sull'immigrazione inviato agli amici di “Lavori in Corso”. Buona lettura, Giorgio.

Primo traduttore ufficiale in Italia di A. de Benoist è stato Marco Tarchi (anch'esso transfugo della destra storica) e scartabellando nell'orbita del pensiero Debenoistiano ho trovato un testo di Tarchi sull'immigrazione da cui estraggo alcuni passaggi.

Un eminente studioso dei problemi sociali come Luciano Cavalli (a questo indirizzo troverete una sua rapida descrizione,http://www.fupress.com/scheda.asp?idv=1741 ), ad esempio, deplorando "il permanere dei veli ideologici" che impedirebbero di percepirne il significato di "ulteriore colpo demolitore" della nazione intesa "come comunità di stirpe, cultura, storia e destino", in un suo saggio recente ha attaccato frontalmente l'immigrazione extracomunitaria di massa in termini di sorprendente durezza. "Se l'immigrazione si sviluppa, per il tacito consenso della classe politica, nelle dimensioni ritenute probabili dagli esperti", ha scritto il sociologo dell'Università di Firenze, "al di là della crescita certa di malessere, scontento e conflitto (...) c'è il pericolo di quella che possiamo chiamare la saturazione migratoria. L'invasione dall'altra sponda e dall'Est, se praticamente incontrollata, scardinerebbe economia, società, ordine pubblico, cultura (...), dunque la civiltà che ci siamo costruiti nel corso dei secoli, che dà una sua peculiarità al nostro popolo e a tutti i nostri rapporti interpersonali, che è parte di ciascuno di noi, elemento della nostra più intima essenza personale".

Tre atteggiamenti di fronte all'immigrazione

Per verificare la plausibilità di questa ipotesi, partiamo dagli atteggiamenti attualmente riscontrabili nell'ambito delle elaborazioni politico-culturali in materia di immigrazione. Volendo costruirne schematicamente una tipologia, ci sembra di poterli ridurre a tre:

a) L'esaltazione senza riserve della positività dell'incontro fra immigrati e popolazione di accoglienza, per i suoi caratteri di potenziale arricchimento, reciproco o meno. E' la posizione che si esprime, nelle sue punte più estreme, in un elogio della commistione e del meticciato  i cui fondamenti ideologici risiedono nei postulati del cosmopolitismo e dell'individualismo.

b) Il rifiuto del contatto e dello scambio, basato su due rappresentazioni assai diverse, anche se spesso strategicamente convergenti, dell'Altro, dell'Alieno, ora visto come inferiore e sottoposto a comportamenti di sopraffazione e di dominio (è il caso delle forme di razzismo consapevole e dichiarato esibite dagli skinheads e da altri gruppuscoli consimili), ora visto come il diverso, lo sconosciuto che incute timore ed apprensione, e fatto oggetto di discriminazioni dettate dal senso di insicurezza (questa è l'immagine prevalente, come dimostrano numerose ricerche e sondaggi, fra gli elettori dei maggiori partiti xenofobi, a partire dal Front National francese). Un amalgama dei due atteggiamenti è riconoscibile nel modello dell'apartheid sudafricano.

c) L'accettazione pragmatica del fenomeno, che senza scadere in contrapposti eccessi di giudizio etico, mira a controllarne la portata e ad organizzarne le forme. E' la posizione che si esprime nella convinzione che una parte del flusso migratorio di questi ultimi venticinque anni si debba considerare definitiva, come è accaduto fra Ottocento e primi decenni del Novecento con i numerosi gruppi etnici europei sparsisi attraverso il Vecchio continente, le Americhe e l'Australia, ma che nel contempo esista in ogni società una soglia di integrazione degli allogeni che, se varcata, induce turbative e disagi non controllabili. L'espressione che definisce la convenzione alla base di questo atteggiamento può essere presa a prestito da un articolo di Marcel Gauchet: Gli immigrati degli ultimi decenni "Sono qua e ci resteranno!”


Differenzialismo o assimilazionismo

Molto più interessante è scandagliare la terza opzione. Essa si fonda su un'argomentazione estremamente semplice: che lo si voglia o meno, che la si consideri una potenziale tragedia o una occasione di arricchimento, oppure, come a noi pare più logico, un fenomeno oscillante nell'ampio spazio situato fra questi due estremi, la multirazzialità è una realtà ormai inscritta nel futuro delle società industrialmente avanzate. Esorcizzarla con il ricorso a fantasmi apocalittici [...................] Oppure come una società differenziata e multiculturale, retta da una dinamica di scambi e interazioni ma fondata sul riconoscimento del diritto alla specificità di ogni gruppo etnoculturale, in un contesto che si potrebbe definire quasi di una società di comunità, al plurale. [...................] Quel che appare sin da oggi certo è che i paesi sviluppati dovranno necessariamente scegliere fra questi contrapposti modelli di sviluppo, salvo soccombere, in caso contrario, ad un'inevitabile crescita di microconflittualità anarchica ed anomica.

Fra i sostenitori delle due prospettive in contrasto la polemica è aperta, ed ha assunto talvolta toni esasperati. In particolare, come ha ben rilevato Alain de Benoist, [..................] l'atteggiamento differenzialista, che afferma la possibilità e la necessità di una convivenza fra diversi coscienti della propria rispettiva specificità, si esprime come una forma esplicita e meditata di antirazzismo.

Chiarire gli aspetti tragici del fenomeno migratorio, e porre la coscienza vissuta dell'identità come unico strumento per attenuarli, non significa d'altronde in alcuna misura abbandonarsi a tentazioni razziste. A meno di non voler accusare di razzismo anche l'Unesco, che in numerosi inserti pubblicitari comparsi sulla stampa italiana ha enfatizzato i suoi programmi di aiuto allo sviluppo dei paesi africani proprio facendo ricorso all'argomento dello sradicamento, del disagio e delle umiliazioni a cui deve sottostare chi, strappato alla cultura e all'ambiente d'origine dalla miseria, intraprende la via, spesso senza ritorno, dell'espatrio. Nel contesto del fenomeno migratorio, la consapevolezza della differenza ed il suo riconoscimento esercitano un'azione positiva in una duplice direzione: consentendo a chi si trova a dover vivere in un contesto civile per molti versi estraneo di mantenere un solido referente identitario e allontanandolo da quelle forme di anomia e di perdita di senso del proprio essere che creano una disponibilità psicologica all'infrazione delle norme e all'aggressività.

Della personalità carnale e spirituale dell'Altro non sembra invece tenere il dovuto conto quella corrente assimilazionista, [...................] che spesso copre con un velo di ipocrisia la dura realtà del confronto fra culture autoctone e allogene parlando eufemisticamente di "scambio di popolazioni", accetta a cuor leggero l'idea di una società multirazziale, di cui vede i margini di utilità economica - manodopera a buon mercato e di pretese, anche abitative, per adesso modeste -, ma ne rifiuta ogni declinazione in termini multiculturali, sperando di ripetere l'esperienza di centrifugazione/assimilazione riuscita, in condizioni ben diverse, nell'Europa del secondo dopoguerra con le popolazioni di origine contadina affluite nelle città industriali.

Partendo da questo pensiero mi nasce spontanea una riflessione. Noi viviamo in una città dove la popolazione (in parte lo sono anch'io) quasi in maggioranza è composta da immigrati meridionali giunti qui negli anni 50. Se ad essi avessimo dovuto imporre il dialetto canturino e il risotto con gli ossibuchi avremmo distrutto l'integrazione e perso dei patrimoni culturali. Chi ha voluto tra gli adulti si è "integrato", chi no è rimasto un "terrone", un "terrone" però che ha rispettato le leggi nazionali e le tradizioni altrui. I figli di entrambe le categorie sono oggi integrati e "mischiati" in matrimoni misti, se avessimo imposto una monoculturizzazione forzata ora mangerebbero gli ossibuchi, ma non si sentirebbero canturini. No al monoculturismo, alla globalizzazione ed a ogni forma di omologazione forzata.

(continua)


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