Sono iscritto a parecchie newsletters, tra queste anche una gestita da Marco Tarchi, sostanzialmente l'alter ego italiano di Alain de Benoist per anni; da lui mi giunge questa riflessione del pensatore francese che voglio condividere. Potete leggere qui l'articolo originale, io vi lascio in calce la traduzione.
Evidenzio i punti a mio avviso salienti, buona lettura.
Charlie Hebdo, da giornale liberale-libertario, era
diventato un portavoce dell’ideologia dominante
Al di là
della legittima indignazione per il massacro perpetrato nella sede di “Charlie
Hebdo”, quali lezioni si possono trarre da questo avvenimento? Bisogna vedervi,
come fanno certi media, la prova che è stata dichiarata una “guerra totale” tra
islam e cristianità, Oriente e Occidente?
La
maniera abominevole in cui sono stati massacrati i collaboratori di «Charlie Hebdo»
fa rivoltare lo stomaco, è ovvio. E quel che è più difficile quando l’emozione
sommerge ogni cosa è conservare l’uso della ragione. E tuttavia ciò che è
maggiormente necessario è imporsi la distanza interiore che consente di
analizzare l’evento e di trarne delle lezioni.
Di fronte a che cosa ci
troviamo?
Di fronte a una nuova forma di terrorismo, inaugurata in Francia dai
casi di Khaled Kelkal e Mohammed Merah. Essa si distingue dalle precedenti
ondate di terrorismo (tipo 11 settembre o attentato di Madrid), che erano
concepite e messe in atto da basi estere attraverso grandi reti internazionali
organizzate. Qui abbiamo invece a che fare con attentati concepiti in Francia
da individui che si sono radicalizzati in maniera più o meno autonoma. Costoro
sono passati progressivamente dalla delinquenza al jihadismo, ma sono il più
delle volte soggetti che sono stati bocciati dal jihad.
Hanno un grande sangue
freddo, sanno utilizzare le armi di cui dispongono e sono completamente
indifferenti alla via degli altri. Nel contempo sono dei dilettanti, dei
pazzoidi, come questi fratelli Kouachi che decidono di andare a decimare una
redazione “per vendicare il profeta” ma iniziano con lo sbagliare indirizzo,
lasciano tracce dappertutto, non prevedono alcuna strategia di ripiegamento e
dimenticano la carta d’identità nella macchina che hanno appena abbandonato.
Sono dei pazzoidi imprevedibili, il che li rende ancor più pericolosi.
Bisogna
anche stare attenti al contagio mimetico. La stessa logica imitativa che ha suscitato
la comunione emotiva dei raduni spontanei a favore di “Charlie Hebdo” non
mancherà di ispirare i potenziali emuli di Merah, dei fratelli Kouachi o di
Amedy Coulibaly. Si immagini l’ondata di isteria sociale che la ripetizione a
brevi intervalli di attentati come quello a cui abbiamo appena assistito
potrebbe provocare. In un clima del genere, tutte le manipolazioni diventano
possibili. Abbiamo visto già qualcosa del genere in passato: si chiama
“strategia della tensione”.
Si deve ovviamente fare la guerra a coloro che la
fanno a noi, e farla con tutti i mezzi necessari. Ma parlare di “guerra totale”
non vuol dire granché. I jihadisti (o i lanciatori di fatwa) sono altrettanto
rappresentativi dell’islam quanto il Ku Klux Klan è rappresentativo della cristianità.
Dopo tutto, non sono stati i jihadisti ma gli occidentali ad agitare per primi
lo spettro dello “scontro tra le civiltà”, dopo essersi impegnati a
destabilizzare l’intero Medio Oriente e ad eliminare tutti i capi di Stato
arabo-musulmani che, da Saddam Hussein a Gheddafi, avevano eretto dighe contro
l’islamismo radicale. La necessità di lottare contro le conseguenze immediate
non deve far dimenticare la riflessione sulle cause prime.
Non è la prima volta che un giornale
viene attaccato in modo violento. Vengono alla mente in particolare gli
attentati contro “Minute” o “Le Choc du mois”, sia pure senza che vi si siano
registrate vittime. Tuttavia, in occasione di quelle violenze, che avrebbero
potuto rivelarsi mortali, si era registrata una minore empatia mediatica. Siamo
sempre alla stessa storia dei due pesi, due misure?
Diciamo
che, se invece di prendersela con la redazione di “Charlie Hebdo”, dei
terroristi avessero decimato quella di “Valeurs actuelles” [settimanale di destra moderata], si può
fortemente scommettere che le reazioni non sarebbero state le stesse. Non si
sarebbero visti fiorire i “Je suis Valeurs” come si sono visti fiorire i “Je
suis Charlie” (dal verbo “essere”, suppongo, non dal verbo “seguire” – ndt: la prima persona singolare dei due
verbi in francese è identica).
La classe politica di governo non avrebbe
certamente parlato di “unione nazionale” (tema mistificante per eccellenza,
peraltro, perché una “unione” di questo tipo avvantaggia sempre coloro che
detengono il potere e vogliono beneficiare di un consenso). Contrariamente al
suo predecessore “Hara Kiri”, “Charlie Hebdo”, giornale liberale-libertario,
era diventato uno degli organi della ideologia dominante. La quale sa
riconoscere chi sta dalla sua parte.
Ci viene detto, unanimemente, che “Charlie Hebdo”
aveva fatto della libertà di espressione il proprio cavallo di battaglia. Ma
cosa si dovrebbe dire delle campagne di delazione che hanno incitato a mettere
lo scrittore Richard Millet alla porta del comitato di lettura delle edizioni
Gallimard, a far licenziare Fabrice Le Quintrec da “France Inter” o Robert
Ménard e Éric Zemmour da "Télé"? La libertà di espressione può avere dei
limiti?
Basta
con l’ipocrisia. Il 26 aprile 1999, i dirigenti di “Charlie Hebdo” avevano
portato al ministero dell’Interno una serie di casse contenenti 173.700 firme
di persone che richiedevano la messa fuorilegge del Front national. In materia
di difesa della libertà di espressione, si è fatto di meglio! Ancora poche
settimane fa, Manuel Valls ha dichiarato che “il libro di Zemmour non merita di
essere letto”, mentre un altro ministro ha chiesto, senza vergognarsene, che “i
palcoscenici televisivi e le colonne dei giornali cessino di ospitare opinioni
di questo tipo”. E non riparliamo neanche del caso Dieudonné. Ciò detto, siamo
giusti: fra coloro che celebrano la libertà di espressione quando si tratta di
Zemmour, purtroppo ce ne sono molto pochi che sarebbero disposti a reclamarla
per i loro avversari. Ora, “la libertà è sempre la libertà di chi la pensa
diversamente”, come ha scritto Rosa Luxemburg, il che vuol dire che si è
meritevoli nel difenderla solo quando si è pronti a farne beneficiare anche
coloro che si esecrano. Ma è proprio questo quel che rifiuta l’ideologia
dominante, anche negli Stati Uniti, dove il primo emendamento consente a
chiunque di dire o scrivere ciò che vuole ma le opinioni non conformiste sono
ancor più emarginate di quanto lo sono in Francia. Così come il diritto al
lavoro non ha mai fornito un posto di lavoro, il diritto di parlare non
garantisce la possibilità di essere ascoltati!
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